Anno 2049: quando una pandemia rischiò di spazzare via l’umanità

:
12 Aprile 2022

1.

Senza la scoperta di Mojca Novak, nel 2049 l’umanità sarebbe stata spazzata via. Poco o nulla avrebbe saputo resistere alla potenza del coronavirus più infettivo della storia, flagello di tali proporzioni che il primo ministro tory Armaan Ngaba l’avrebbe paragonato, nel corso di una delle sue ultime, tetre interviste radiofoniche alla BBC, all’Apocalisse. «È il Signore che viene a saldare i conti con la stirpe maledetta di Caino» disse il 2 aprile 2049; si spense il 18 maggio in preda alla febbre, all’insufficienza respiratoria e all’anuria, dopo aver seppellito nei mesi precedenti la moglie e i tre figli.

Forse sarebbero sopravvissute all’ordalia virale alcune remotissime comunità di cacciatori-raccoglitori dell’Amazzonia, eremiti e asceti qui e lì per il mondo, gruppi di havasupai dell’Arizona, famigliole san in Namibia e hadza in Tanzania, sette di preppers pentecostali tra le Dolomiti e i Carpazi, una manciata di clan mongoli, ma il 99,998% della popolazione mondiale sarebbe stato sterminato.

Niente sembrava fermare il SARS-CoV-48. Era in grado di “aggrapparsi” alle PM2,5 e alle PM10, agli ossidi di azoto e a molti altri inquinanti presenti nell’atmosfera. Resisteva ai raggi UV meglio di qualsiasi virus (la scienza avrebbe impiegato anni a comprenderne le ragioni). Al chiuso, poteva resistere su ogni tipo di superficie per giorni. Soprattutto, aveva un tasso di letalità superiore a quello del SUDV e del TAMV. Remoti villaggi della Nigeria e del Senegal miracolosamente resistiti alla grande epidemia di Ebola del 2031 furono spazzati via come castelli di sabbia sulla battigia. Miliardari che si erano rifugiati in mare aperto, su grandi yacht con elicottero dotati di ogni tipo di comodità, morirono tra atroci sofferenze, e i costosissimi medici al loro capezzale nulla poterono per salvarli.

Ma l’umanità non si estinse. Ci furono centinaia di milioni di morti, collassarono interi paesi, la Bolivia e il Perù si gettarono come lupi sul Cile del generale Costa, in Thailandia scoppiò la rivoluzione kafarista, Mumbai, Londra e San Paolo si dichiararono città-stato indipendenti, il Louvre fu saccheggiato, in varie isole caraibiche gli occidentali furono massacrati a decine, però gran parte dei nove miliardi di uomini e delle donne che popolavano la Terra nell’inverno del 2049 sopravvisse. E fu merito di Mojca Novak.

2.

Mojca Novak si era laureata in microbiologia a Lubiana nel 2016, ma proveniva da Maribor, una placida città medievale sulla Drava. Cittadina spagnola dal 2044 (in Slovenia aveva solo una sorella minore, con cui non andava molto d’accordo), era la decana dell’Istituto galiziano di genomica vegetale (IGGV), dove aveva conseguito un PhD in biologia e biotecnologia dei funghi nel 2022. Una volta un suo collega andaluso, tra il serio e il faceto, aveva detto che «Mojka è entrata in un laboratorio a diciott’anni e non ne è più uscita». E in effetti la scienziata slovena trascorreva dalle otto alle dieci ore al giorno in laboratorio, di cui conosceva ogni macchina, ogni alambicco, ogni piccolo segno sul pavimento in resina.

Fuori dall’Istituto quasi nessuno conosceva Mojca Novak. Il suo nome non era mai apparso sui giornali galiziani, di solito così attenti ai pesci che nuotavano nell’Istituto, vanto della ricerca scientifica galiziana. Mojca Novak era pressoché sconosciuta anche tra gli specialisti del suo settore. Aveva un H-index piuttosto basso, non si era distinta in nessuna conferenza o congresso. Era una donna taciturna e allampanata che non si era mai sposata, che detestava i gatti, che aborriva cene e bevute.

Astemia e agnostica, aveva tre hobby: la lettura delle opere del suo compatriota Slavoj Žižek, la corsa e la mineralogia. Tuttavia il direttore dell’Istituto la stimava (alcuni sussurravano che in un remoto passato fossero stati amanti: vili menzogne) e quando nel 2036 lei gli aveva chiesto, nel suo consueto modo secco, di concedergli l’uso dei laboratori nei fine-settimana per un pet project di cui non voleva svelare i dettagli, lui le aveva detto di sì. La verità è che Aniceto Fernández-Casal come scienziato non valeva granché, ma era un buon conoscitore del cuore degli esseri umani, e si fidava ciecamente del talento recondito di quella slovena dallo sguardo gelido, ma nelle cui pupille grigie ardeva un misterioso fuoco che diciannove anni di vita monacale in laboratorio non avevano mai spento.

La svolta fu nella primavera del 2044, con il test 135b. Un anno dopo, per la precisione il 2 luglio 2045, alle ore 14:32, Mojca Novak entrò senza bussare nell’ufficio di Fernández-Casal, intimò ai due capi-unità della sezione di biologia dei cereali a paglia di tornare il giorno dopo, e si chiuse a chiave con il suo sbalordito superiore. Quando ne uscirono Fernández-Casal era raggiante e fumava un sigaro (stava cercando di smettere, su insistenza della figlia), mentre la scienziata aveva la consueta espressione impassibile.

Il 16 marzo 2046, presso il Municipio di Vigo, alla presenza del sindaco, del vice-presidente del governo della comunità autonoma della Galizia, e di un sottosegretario del Ministero della Scienza, dell’Innovazione, dell’Università e del Progresso, Mojca Novak annunciò al mondo, con tono monocorde, la più importante conquista scientifica del XXI secolo, forse della storia: il Lentinula gallaicum novakianum. Per quanto avesse ricevuto un dignitoso media training dall’ufficio comunicazione dell’Istituto, la scienziata si guardò bene dall’illustrare in modo comprensibile di che cosa si trattasse, e i perplessi giornalisti in sala capirono solo che aveva modificato il genoma di un fungo che tutti potevano trovare al supermercato, lo shiitake.

Fu l’intervento di Fernández-Casal che fece intuire la portata del lavoro di Mojca Novak. La scienziata era riuscita a creare, modificando sapientemente il genoma dello shiitake, un fungo che non solo conteneva grandi quantità di vitamine, antiossidanti, fibre e sali minerali, nonché discrete quantità di carboidrati e lipidi, ma che era molto facile da coltivare (“con ogni clima tra gli zero e i quarantasei gradi e mezzo” specificò il direttore), e vantava ottime proprietà battericide, anti-virali e anti-infiammatorie. «In base ai nostri esami – continuò, visibilmente emozionato – le sue proprietà anti-infiammatorie sono quarantacinque volte superiori a quelle del cortisone, e novanta volte rispetto al CBD». E ancora, il Lentinula gallaicum novakianum era in grado di assorbire anche quantità minime di umidità presenti nell’aria, e il suo cappello ne restava intriso come una spugna. «Chi avrà sete potrà mangiare crudi cinque o sei cappelli di questi funghi meravigliosi per dissetarsi» sottolineò Fernández-Casal.

In pratica Mojca Novak aveva creato, da sola, un fungo miracoloso. Ma non era tutto. Poiché i diritti di sfruttamento economico del Lentinula gallaicum novakianum appartenevano alla scienziata (che li aveva acquistati ad agosto, impegnandosi a versare duecentocinquantamila euro all’Istituto in tre rate annuali), lei aveva deciso di rendere di pubblico dominio il codice genetico del suo fungo. Qualsiasi individuo con un minimo di competenze di genomica e una biostampante 3D prosumer si sarebbe potuto creare il suo Lentinula gallaicum novakianum, e avrebbe potuto rifornire di spore amici e conoscenti.

«Dato che non tutti, però, sono in grado di maneggiare una biostampante 3D, la dottoressa Novak chiede alle organizzazioni internazionali di supportarla dal punto di vista logistico e finanziario per creare centri di coltivazione di Lentinula gallaicum novakianum in tutto il mondo, e garantire a ognuno dei nove miliardi di abitanti della Terra le spore necessarie per coltivarsi i propri funghi – disse Fernández-Casal –. Secondo i colleghi del dipartimento di sistemi alimentari, grazie al Lentinula gallaicum novakianum l’umanità potrebbe azzerare i morti per fame e per sete entro il 2070».

Un giornalista catalano però non era convinto. «Chi ci assicura che il fungo della signora non sia tossico, o velenoso, o non provochi il cancro?» disse con aria scocciata. Mojca Novak fece una tenue smorfia di compatimento, mentre Fernández-Casal si affrettò a replicare: «Abbiamo già trasmesso il codice genetico del Lentinula gallaicum novakianum, così come tutti i dati in nostro possesso, ai principali centri di genomica del mondo. La più importante rivista del nostro settore pubblicherà in settimana l’articolo della collega. In ogni caso è impossibile che il fungo sia tossico, velenoso o provochi il cancro. Casomai, grazie alle sue ottime proprietà nutraceutiche, potrebbe dare un utile contributo nella prevenzione di vari tipi di malattie».

Fernández-Casal sapeva che si stava giocando non solo il suo posto di lavoro e il suo futuro professionale, ma la reputazione scientifica dell’intero Istituto, che in tredici anni era riuscito faticosamente a trasformare in un punto di riferimento nazionale ed europeo. Tuttavia aveva letto e riletto i dati, sua moglie – ordinaria di genomica delle piante in un’importante università di Madrid –li aveva analizzati con cura, suo figlio ricercatore in Iowa, e decine di colleghi in Spagna, Germania, Italia, Brasile, Cile, Francia, Regno Unito, Svezia, Giappone, Australia, Sudafrica, Indonesia e Canada erano rimasti strabiliati. E non aveva mai visto test virtuali, in vitro e in vivo (su topo) così promettenti.

«Avete detto che il fungo può crescere tra gli zero e i cinquantasei gradi» disse una giornalista di Madrid che collaborava alla pagina scientifica di un noto quotidiano di destra. «Quarantasei gradi, quarantasei e mezzo» la corresse Fernández-Casal, mentre Mojca Novak si limitava a scrollare la testa. La giornalista annuì, e disse: «In inverno, dunque, il fungo non potrà essere coltivato». «Qualsiasi habitat artificiale temperato, incluso uno spazio indoor domestico, sarà adeguato» rispose Mojca Novak. La giornalista strabuzzò gli occhi chiari, e Fernández-Casal si affrettò a tradurre: «Una serra o anche una normale casa abitata sono perfette per coltivare il Lentinula gallaicum novakianum. Oggi ciascuno di noi ha una felce, un cactus o un bonsai nel suo appartamento, domani avremo anche qualche Lentinula gallaicum novakianum». «E se uno è un clochard, o magari è un rifugiato e vive in una tendopoli?» insistette la giornalista. «Il Lentinula gallaicum novakianum è forte, il calore generato da un braciere acceso può bastare» rispose Fernández-Casal.

Un giornalista ligure che aveva sposato una designer di Pontevedra, e che era il corrispondente dalla Spagna per diverse testate italiane, chiese se «il fungo della dottoressa Novak avesse un buon sapore». Fernández-Casal scoppiò a ridere. «So che voi italiani siete molto attenti alle caratteristiche organolettiche dei cibi, specialmente al loro sapore, ma anche noi spagnoli non siamo da meno. Il Lentinula gallaicum novakianum è frutto della ricerca scientifica galiziana e spagnola, ed è progettato per essere molto gustoso – spiegò il direttore, attirandosi sguardi di approvazione da parte dei politici –. Anzi, se avete tutti firmato il foglio che vi ha consegnato la signorina Francisca, direi che possiamo avviarci verso il tavolo del buffet. La mia talentuosa figlia Xoana Zoe e il collega Martin Egidio de Sosa del dipartimento ICT dell’Istituto si sono sbizzarriti ai fornelli nelle ultime sette ore, e potrete assaggiare il Lentinula gallaicum novakianum in tante varianti diverse: impanato e fritto, con il polpo, con il merluzzo, crudo con l’olio d’oliva e il limone, in un delizioso caldo, nelle empanadas, con una giardiniera croccante, in brodo, ai ferri, come condimento degli spaghetti, sotto forma di polpette…» Tutti, persino i più scettici, si diressero verso il buffet, confidando che almeno i vini non fossero fatti con il fungo. Prima di alzarsi dalla sua sedia Mojca Novak aspettò che tutti se ne fossero andati. Era una statua di ghiaccio, ma mentre si allontanava con il sottosegretario Fernández-Casal le lanciò un paio di sguardi: sapeva che era felice.

3.

Nell’autunno 2047 iniziarono a moltiplicarsi le startup specializzate nello sviluppo di cibi a base del “fungo di Mojca” (così l’aveva ribattezzato la stampa spagnola, e il nomignolo, che alla sua inventrice non dispiaceva, aveva attecchito). L’hamburger di Lentinula gallaicum novakianum, inventato da una startup svedese, spopolò in tutta Europa, e varie catene di fast-food lo inserirono nei loro menù vegetariani. La FDA statunitense e il Comitato permanente per piante, animali, alimenti e mangimi della UE avevano consentito la commercializzazione del Lentinula gallaicum novakianum solo pochi mesi prima, ma era già chiaro che il “fungo di Mojca” sarebbe stata un successo internazionale.

La comunità scientifica aveva accolto l’invenzione della scienziata con entusiasmo quasi unanime, e si mormorava che Mojca Novak avrebbe presto vinto il Nobel per la Fisiologia, o quello per la Pace, o forse entrambi. In una Terra sempre più affollata e affamata, in preda all’emergenza climatica, con il costo dei cereali ormai alle stelle, e dove mangiare il fonio o la moringa era ormai prassi comune, la scienziata slovena aveva inventato un cibo sano, nutriente, democratico, gustoso e totalmente sostenibile, dato che aria, luce e acqua bastavano a nutrire il Lentinula gallaicum novakianum. «Il “fungo di Mojca” può essere mangiato dagli appartenenti a ogni tipo di credo religioso, pratica alimentare, filosofia. È altamente digeribile anche per chi soffre di allergie o intolleranze alimentari. In breve, la scienziata europea, originaria di Maribor (Slovenia) ma cittadina spagnola dal 2044, ha inventato il primo cibo universale della storia» scrisse il New York Times.

A Parma Giuseppe Culicchia, chef patron della Taverna Erasmiana, e tra i cuochi più premiati al mondo, dedicò a Mojca Novak due piatti del suo menù sostenibile al 100%: la omelette di Lentinula gallaicum novakianum con caviale di legumi e spuma di tarassaco, e gli spaghettoni di Lentinula gallaicum novakianum e miglio in crema di alghe mediterranee. I presidenti e re di tutta Europa fecero a gara per conferire onorificenze e riconoscimenti alla scienziata, che nel suo piccolo paese di origine divenne un’eroina nazionale: nessuno sloveno nella storia era mai stato così famoso, nemmeno France Prešeren, Jože Plečnik o Melania Trump. A Maribor furono ribattezzati con il nome della scienziata una piazza, un liceo e un ospedale, a Ptuj una via, a Lubiana la nuova biblioteca universitaria e un museo. Mojca Novak divenne la quintessenza della slovenitudine, e il presidente della Repubblica Bruno Nemec volò in Galizia apposta per incontrarla.

Fu anche merito di Mojca Novak se il fragilissimo governo spagnolo non cadde. Il socialista Pablo Javier Llorente Balagueró era da mesi sotto attacco per le sue politiche di accoglienza, ma quando al Congresso, in un discorso memorabile, ricordò a tutti gli spagnoli che ricercatori brillanti come Mojca Novak non si sarebbero mai trasferiti in Spagna se «le politiche ottuse e oscurantiste di España Limpia dovessero prevalere, e si bloccasse l’accesso a tutti i migranti non-europei o con la pelle non-bianca» alcuni deputati del PCAE decisero di rompere con l’opposizione di ultradestra, e di non sostenere la mozione di censura con cui España Limpia voleva prendere il potere. E pazienza che Mojca Novak fosse una cittadina della UE, intoccabile anche per la legislazione xenofoba proposta da España Limpia.

Nel giro di pochi mesi, grazie agli innumerevoli premi e alle tante donazioni, Mojca Novak incassò quasi cinque milioni di euro. Tenne duecentomila euro per sé, mentre usò il resto per saldare il suo debito con l’Istituto, e per creare una fondazione che promuovesse l’utilizzo e la coltivazione del Lentinula gallaicum novakianum (per tutta la vita la scienziata slovena l’avrebbe chiamato così, non ricorrendo né al celebre nomignolo, né al triste acronimo LGN). Anche se detestava viaggiare, Mojca Novak accettò il passaggio dei nuovissimi transatlantici a energia solare, e si recò a New York, dove incontrò la sindaca della megalopoli, la presidente degli Stati Uniti e la segretaria generale delle Nazioni Unite; e fu proprio Mercy Kim Omondi, prima lesbica africana a ricoprire il ruolo che fu di U Thant e Renzo Parolin, ad annunciare al G20 di Albany che le Nazioni Unite, la Finlandia, la UE, il Sudafrica e il Canada avrebbero finanziato nel 2048 l’iniziativa Global LentinulAid, per creare, entro il 2055, cinquantacinque centri di coltivazione del fungo dal Guatemala alla Siria, dall’India al Malawi. «Saranno vere e proprie cittadelle del progresso e della fratellanza umana, con serre, scuole di biologia e genomica del fungo, laboratori, biblioteche. Entro il 2065 nessun bambino, nessuna donna, nessun uomo dovrà più patire la fame o la sete, per nessun motivo».

Naturalmente non tutti erano innamorati del “fungo di Mojca”. L’Associazione Europea degli Agricoltori Innovativi nella Tradizione lanciò una vastissima campagna di sensibilizzazione sui rischi derivanti dal mangiare Lentinula gallaicum novakianum. All’Europarlamento una mozione presentata dall’estrema destra definì il “fungo di Mojca” «una minaccia per la salute e il benessere di cinquecentoventi milioni di europei» e propose di vietare qualsiasi alimento contenente Lentinula gallaicum novakianum. La mozione fu respinta, ma i media le diedero una tale risonanza che iniziarono a moltiplicarsi, nel mondo reale come in quello digitale, le leggende nere e bufale sul Lentinula gallaicum novakianum: alcuni sostenevano che fosse, in realtà, una pianta aliena giunta sulla Terra con una cometa, e che provocasse la mutazione del DNA di chi la ingeriva; altri che fosse una pericolosa sostanza psicotropa, creata con il plasma dei neonati da un laboratorio segreto per soggiogare l’umanità.

Diversi stati americani, incluso il Texas, l’Alabama, la North Pennsylvania e la Florida, vietarono il commercio e la produzione di Lentinula gallaicum novakianum, e in Mississippi divenne un reato punito con dieci anni di prigione persino possedere spore di Lentinula gallaicum novakianum. «Quando la Terra fu creata il “fungo di Mojca” non esisteva, mentre esistevano le pesche, i salmoni e le vacche – scrisse sul suo blog Luke Millerman, suprematista bianco che il 22 gennaio 2048 commise la strage del Blue Mall di Atlanta –. Dobbiamo agire per fermare la diffusione di questa mostruosità della scienza comunista, e salvare l’Occidente dall’omologazione asiatica e anti-cristiana».

Anche alcuni stati indiani vietarono l’uso del Lentinula gallaicum novakianum a scopi alimentari, e in Polonia diverse città e villaggi rurali si proclamarono LGN-free. Sia in Italia che in Francia moltissimi ristoratori dichiararono che per nessuna ragione al mondo avrebbero accolto nei loro menù il “fungo di Mojca”, e vari attivisti impegnati nella promozione del fungo subirono minacce e percosse (il caso più grave fu a Lione, dove due volontari che distribuivano salsicce di Lentinula gallaicum novakianum ai clochard furono aggrediti e gettati nel Rodano da un gruppetto di neofascisti).

4.

Quando, a inizio febbraio 2049, i lavoranti di un’enorme macelleria industriale alla periferia di Ezhou si ammalarono di una strana malattia polmonare, il governo cinese aveva aperto da soli due giorni il Centro Nazionale di Studi, Analisi e Coltivazione dei Funghi Lamellati, a Hangzhou; formalmente il Centro si sarebbe occupato di numerosi tipi di funghi, autoctoni e non, ma persino la stampa di partito faceva intendere che in realtà si sarebbe specializzato nella coltivazione (e nel miglioramento) del Lentinula gallaicum novakianum.

Al di fuori della Cina, erano state solo una manciata le nazioni che avevano accolto l’appello delle Nazioni Uniti, e gli innumerevoli inviti di Mojca Novak: la Svezia, che con la Finlandia e la Norvegia aveva creato in Scania l’Hub Nordico per la Coltivazione del LNG; la Spagna, che aveva investito otto milioni di fondi europei nel potenziamento dell’Istituto galiziano di genomica vegetale; il Sudafrica, che grazie ad alcune donazioni internazionali era riuscito a far decollare il Centro Nazionale per lo Studio del LNG, a Durban; l’Oman, su decisione del sultano, che era un appassionato di agronomia sin dalla laurea in scienze biologiche a Firenze, e sognava di trasformare il paese in un esportatore di cibo, una “Toscana del Golfo Persico” come amava ripetere.

Il 1° marzo 2049 i due milioni di abitanti di Ezhou furono messi in quarantena, e nessuno poté più entrare o uscire dalla città. Ma ormai era troppo tardi. Nel giro di cinque giorni apparvero i primi focolai a Shanghai, Osaka, Hanoi, Perth, Jakarta, Seul, Lima, Mosca. A metà marzo il virus giungeva in California, e venivano registrati i primi casi a Varsavia, Monaco, Breslavia, Londra, Rotterdam. Per l’Italia l’incubo ebbe inizio il 29 marzo 2049, quando un tabaccaio di Verona in preda agli spasmi fu portato dalla figlia in lacrime al pronto soccorso di Borgo Trento.

Chi aveva vissuto i terribili anni 2020 e 2021 intuì presto come il SARS-CoV-48 fosse molto peggio del SARS-CoV-2, causa della temuta COVID-19. Mantenere le distanze e indossare la mascherina non era sufficiente. Per essere sicuri di non infettarsi con un virus che riduceva «i polmoni di un trentenne in due nere spugne sanguinolente», servivano una tuta protettiva, occhialoni e visiere para-schizzi, guanti in nitrile, mascherine FFP3. In pratica nessuno, tranne gli ospedali, le forze armate, le aziende specializzate (ad esempio quelle attive nella rimozione dell’amianto) e pochi preppers disponevano di equipaggiamenti del genere. Il 4 aprile 2049 un sito d’aste francese vendette una mascherina FFP3 per duemilasettecento euro.

I reparti di terapia intensiva giapponesi collassarono alla fine di marzo, quelli di Singapore e Australia a inizio aprile, quelli francesi, tedeschi, inglesi e italiani a inizio maggio. In Polonia, Belgio, Svizzera e Paesi Bassi le bare iniziarono a scarseggiare prima della fine di aprile, e a maggio anche le urne erano introvabili. Il 12 maggio la Francia dichiarò gli ospedali civili “siti militari”, e ne vietò l’accesso a chiunque non fosse dotato di uno speciale permesso del prefetto; la misura fu presto imitata da Italia, Spagna, Polonia, Danimarca, Bulgaria, Grecia. Nessuno era al sicuro: a metà aprile erano già morti quattro premi Nobel, cinquantun ministri, nove capi di stato, sei premi Oscar, cinque campioni olimpici nel fiore degli anni, venticinque miliardari e altri sette milioni di donne e uomini forse ancor più eccezionali, senz’altro meno noti. Il generale Murad Garachenko, padre-padrone del Kazakhistan, e il dittatore egiziano Abu Badr furono uccisi dal virus: una fine alquanto paradossale, dato che ambedue avevano negato l’esistenza del virus.

In Corea del Nord il regime sigillò i confini e rase al suolo interi quartieri di Rason,  Kaesong e Pyongyang nel tentativo di arrestare la diffusione del virus, invano. Nel giro di tre mesi tutti i paesi del mondo chiusero le frontiere, vietando l’ingresso non solo alle persone, ma a tutte le merci non-essenziali. Si era infatti scoperto, analizzando alcuni torni spediti dal Vietnam a una fabbrica di robot del New Mexico, che un viaggio di quarantadue giorni per mare e per terra con sbalzi termici terrificanti non era bastato a neutralizzare il SARS-CoV-48, che era «come andato in letargo» (fu così che parlò al Kansas Mercury il governatore dello stato, un appassionato di caccia al bisonte).

Il buio, il gelo e la calura non intaccavano la letalità del virus. Di colpo ogni oggetto divenne sospetto. Toccare una maniglia, prendere un giornale, digitare un codice numerico sul display di un distributore automatico di farmaci di colpo divennero azioni pericolosissime. Ancora, si scoprì che il SARS-CoV-48 era “pesante”, e che in assenza di vento, e in presenza di un’aria poco inquinata con un basso tasso di umidità, le goccioline di saliva con il virus scendevano al di sotto del mezzo metro di altezza nel giro di dieci secondi.

Operazioni essenziali come fare la spesa, buttare la spazzatura, recarsi in farmacia divennero impossibili. In Ungheria e Turchia si verificarono linciaggi di persone colpevoli di aver tossito o starnutito in pubblico. Uno studio svizzero calcolò che un’uscita da venti minuti a piedi in un’area altamente inquinata con traffico automobilistico e pedonale intenso, entrando in un unico spazio chiuso per un massimo di cinque minuti, senza indossare un equipaggiamento adeguato, comportava un rischio tra il 15% e il 45% di infettarsi; se però l’area era a bassa o bassissima frequentazione, l’aria era poco inquinata e non si entrava in alcun spazio chiuso, il rischio si azzerava, purché il soggetto non toccasse alcun oggetto infetto.

In poche parole l’unico modo per sopravvivere era non uscire mai di casa, e liberare le finestre di tende e tendine, in modo da far entrare la luce e sperare che i raggi ultravioletti, in due o tre minuti, riuscissero a distruggere il capside del virus. Uno studio italiano aveva calcolato che chi aveva comprato un qualsiasi prodotto d’importazione tra gennaio e marzo, fosse anche una radiosveglia o dei fiori di plastica, aveva tra le 25% e 60% di possibilità di avere in casa, da qualche parte, il virus. Scoppiò la psicosi: in tutta Europa ci furono roghi di paccottiglia; patrizie dei Parioli, Villa Montmorency, Brera e Chelsea ordinarono alle loro domestiche di buttare letteralmente dalla finestra qualsiasi oggetto che non fosse di produzione locale.

Molti presero l’abitudine di spogliarsi totalmente ed esporsi al sole, di pancia e di dorso, varie volte al giorno: le chiamavano “docce di luce”, o “purificazioni”, o anche “bagni di sole”. Chi possedeva un grande balcone, o era pronto a vivere all’aperto, aveva ottime possibilità di non infettarsi, persino maneggiando oggetti contaminati, purché nessun malato si avvicinasse a lui più di tre metri (sette se soffiava il vento), e l’aria che respirava non fosse inquinata.

A fine maggio 2049 erano già morti trenta milioni di persone, e chi non soccombeva a causa del SARS-CoV-48 rischiava di morire di fame, o per mancanza di farmaci, aiuto e cure. In pochi osavano uscire di casa, anche perché la maggior parte dei negozi erano chiusi, e gli scaffali erano comunque vuoti. Un quotidiano online romagnolo riportò che un giovane notaio di Rimini era riuscito a comprare un uovo di cioccolato per la figlia recandosi con la sua barca a vela a Dubrovnik, ma molti pensarono che si trattasse di una fola (anni dopo uno storico dilettante di Cesena provò che invece era realmente accaduto, e dalla storia fu tratto un olo-film interpretato da Clemente Favino).

Solo in Italia fallirono quasi cinque milioni di aziende, inclusi tutti i bar e i ristoranti, con l’eccezione di quelle poche mense in centri militari o politici. Chi non possedeva dei campi o almeno un orticello rischiava di crepare di fame. Il 17 maggio, a Catanzaro, ci furono i primi due morti per denutrizione: una coppia di anziani dimenticati da tutti.

In gran parte dei paesi europei fu dichiarato il coprifuoco totale e permanente. Nessuno poteva uscire di casa se non per ragioni di assoluta necessità. Ma nessuno usciva di casa, e sulle città del Vecchio Continente calò una cappa di silenzio così assordante, che alcuni ne impazzirono. Per le strade di Parigi come di Napoli, di Lisbona come di Berlino transitavano solo un numero sempre più esiguo di ambulanze, blindati militari e auto della polizia; il solo simbolo della presenza dello stato erano gli UAV ormai ubiqui, che volavano sui quartieri congelati gracchiando messaggi di pubblica utilità, notizie sulla pandemia, occasionalmente aforismi religiosi e filosofici (o favole per bambini, come accadeva nei quartieri popolari di Oslo e di Copenaghen).

Il giornalista maltese Andrew Messina, incurante di rischiare la galera, passò quattro giorni di giugno aggirandosi per le strade vuote di Kiev, con un registratore sempre acceso. A parte due pazzi, un pope e una poliziotta tartara che gli sorrise, incontrò solo corvi, passeri, volpi, gatti, cani randagi, pecore e un cervo. Una notte, mentre sonnacchiava a pochi passi dal monumento a Zelens’kyj, gli sembrò di vedere dei lupi lanciati all’inseguimento di un cavallo ferito, ma era troppo stanco per svegliarsi (la registrazione non confermò né smentì l’episodio).

Sarebbe inutile, in questa sede, rievocare con altri tristi dettagli quei primi, catastrofici mesi di pandemia: i blackout che divennero sempre più frequenti a partire dal luglio 2049, la follia che contagiò interi popoli, il terrore che si impadronì di altri, la Rivolta di Gatwick del 25 agosto, gli episodi di cannibalismo a Houston, l’appassionato discorso che il presidente della Repubblica Casini rivolse ai cittadini, ricordando come nemmeno la Peste Nera del XIV secolo fosse riuscita a spegnere la forza vitale e creativa del popolo italiano; ebbene, tutto ciò è noto.

È altrettanto noto, ma ben più rincuorante, quello che accadde a partire dall’inverno 2050. Un report del Pentagono del 12 dicembre 2049 aveva stimato che nel best case scenario quasi duecentocinquanta milioni di americani, e otto miliardi di persone in tutto il mondo, stessero correndo il rischio di grave denutrizione, e che ci fosse almeno il 60% di possibilità di un collasso della civiltà umana entro il 2052. Tuttavia ciò non accadde.

4.

Quando Mojca Novak, a metà febbraio, fu informata da un’amica epidemiologa di Taiwan dei morti ad Ezhou ascoltò in silenzio, chiuse la telefonata, lasciò in fretta l’Istituto e andò a un vicino ipermercato, dove acquistò – tra le altre cose – una ventina di bacinelle di plastica, quaranta litri di vodka, un centinaio di barrette di cioccolato bianco, fondente o al latte, trenta damigiane di olio d’oliva andaluso, sei pacchi di garze sterili, duecento rotoli di carta-igienica, cinquanta barattoli di miele, dieci chili di noci, trenta ombrelli, dieci ombrelloni, molte paia di stivali di gomma, cinque sacchi di carbonella, cinque casse di bottiglie di acqua minerale, ottanta chili di sale fino, novanta chili di sale grosso, cinquanta stecche di sapone delicato, novanta bottiglie di varichina, molte bustine di sementi, fertilizzante, una quantità enorme di tampax e assorbenti, teli di ogni tipo, incerate, sacchi della spazzatura, sei stecche di sigarette, lattine su lattine di pelati, spezie, una quarantina di lattine di carote, mais, gombo e piselli, ottanta litri di succo di arancia e altrettanti di latte vegetale, stuzzicadenti, svariati set di posate, latte in polvere per neonati, biscotti secchi, caramelle senza zucchero, trenta litri di aceto, quaranta confezioni di sapone di Marsiglia, e tutte le confezioni di fiammiferi e crema solare che trovò.

Naturalmente non acquistò tutto in una volta, fece una ventina di viaggi. Per quanto secca era una donna forte, e aveva un furgoncino elettrico obsoleto ma capiente, e i robo-inservienti dell’ipermercato erano molto servizievoli. Scaricò le provviste in un vecchio hotel a sei piani dal tetto piatto che aveva comprato un mese prima; voleva farne la sede della sua fondazione, ma le era chiaro che avrebbe dovuto posticipare quel progetto di almeno un paio di anni. L’hotel, che una trentina di anni prima aveva ospitato congressi di partiti politici e feste private, era circondato da imponenti siepi di rovo che schizzavano verso i quattro metri, e Mojca Novak aveva ordinato ai venditori di farle scomparire. Per fortuna i venditori non l’avevano ancora fatto, e per una volta la scienziata slovena benedisse in cuor suo l’irritante flemma spagnola.

Era il tramontò quando si recò nel suo appartamentino per svuotarlo di tutto ciò a cui teneva. Mentre riempiva in fretta e furia sacchi della spazzatura di libri di filosofia, biancheria, posate e quaderni pieni di appunti, minerali, domandò a Fernández-Casal di riunire tutto il personale dell’Istituto la mattina dopo in cortile, alle otto e dieci in punto, minacciando il licenziamento per chiunque non si fosse presentato. Gli disse anche di portare sua figlia e sua moglie, che sapeva essere a casa in convalescenza dopo una brutta influenza intestinale. Chiamò poi il suo ex, un poliziotto basco che aveva quasi sposato nel 2031, e gli disse di raggiungerla portando con sé un po’ di biancheria, libri, abiti e soprattutto tutte le armi su cui poteva mettere le mani; gli ordinò di portare con sé venti mazzi di carte, dieci scacchiere, molti palloni da calcio, da volley e da rugby, quaranta stecche di profilattici e cinquanta confezioni di assorbenti, cento scatolette di vegetali in scatola, molti teli di plastica, venti casse d’acqua minerale, farmaci, bacinelle, sacchi di mele. «Mi ci vorrà un camion per portare tutta questa roba» balbettò Aratz. «Affittalo, fattelo prestare o ancora meglio compralo a rate. È indifferente» ordinò lei, e riattaccò. Quindi andò in farmacia e comprò tutte le mascherine FFP3 che trovò.

La mattina dopo nell’ampio e arioso cortile dell’Istituto c’erano tutti: il direttore con la moglie infastidita e la figlia assonnata, i quattordici membri del team amministrativo, i novantasette ricercatori, i trentasei dottorandi e i ventidue tecnici. O meglio, c’erano quasi tutti. «Dov’è Miguel?» disse. «Doveva portare la figlia a scuola, arriva tra mezz’ora» rispose una segreteria. «Chiamalo, digli di venire subito, e porti con sé sua figlia» ringhiò Mojca Novak. Poi iniziò a parlare: «Signore e signori, voi siete la mia famiglia. Non mia sorella a Maribor, non i miei cugini a Buenos Aires. La mia famiglia siete voi, e perdervi sarebbe per me abbastanza negativo. Tra una ventina di giorni il mondo sarà alle prese con una pandemia così drammatica che chi, come me, ha vissuto il biennio del Covid-19 penserà con nostalgia a quell’epoca. Ancora una volta l’epicentro è in Estremo Oriente, e per la precisione un enorme complesso per il trattamento della carne suina nella città cinese di Ezhou. Come sapete ho acquistato per la mia fondazione un hotel a sette chilometri da qui. Vi chiedo di trasferirvi con me laggiù portando con voi provviste, nonché biancheria intima, abiti per l’estate e per l’inverno, qualche libro eccetera… vi manderò via mail una lista. Qualcuno di voi è stato in Estremo Oriente, nelle ultime settimane?». Alzò la mano Rocco Broggi, un romano che stava finendo il dottorato in genomica dei licheni. «Sono andato a trovare la mia fidanzata a Timisoara, è abbastanza a est?». Molti risero, ma la scienziata slovena lo fissò con disprezzo e non disse nulla. «Il dottor Sánchez è a Shanghai, dovrebbe tornare tra dieci giorni» disse la coordinatrice delle trasferte dei ricercatori dell’Istituto. «Mi dispiace, è un peccato» rispose Mojca Novak.

Patrick Walsh, uno dei dottorandi più brillanti dell’Istituto, era incredulo e scandalizzato. Nel suo spagnolo approssimativo, impastato delle sonorità dell’inglese celtico di Limerick, disse chiaro e tondo che Mojca Novak aveva perso il senno. «Conosci la genomica dei funghi come nessun altro, e il LNG è un capolavoro scientifico, ma non sei un’epidemiologa. So che quelli della vostra generazione sono rimasti traumatizzati dal Covid-19, però non puoi pensare che qualche morto di polmonite in Cina sia l’inizio di una pandemia. E trovo folle che tu ci chieda di chiuderci in un albergo isolato con te… solo un pazzo, solo un megalomane in preda a un delirio di onnipotenza potrebbe chiedere a settanta persone di fare una cosa del genere».

Tutti, nel cortile, attendevano con trepidazione la risposta di Mojca Novak. «Vedi Patrick, a segnalarmi ciò che sta succedendo in Cina è una delle epidemiologhe più importanti al mondo, la dottoressa Chong Tsu-Pin. Controlla il suo cv, guarda in quali riviste ha pubblicato, esamina il suo percorso scientifico. È stata vice-direttrice del CDC di Atlanta per dieci anni, dato che ha la doppia cittadinanza, ha un intelletto formidabile, e oggi coordina uno dei più grandi centri di epidemiologia del mondo. Aggiungo che suo marito è l’assistente del ministro degli interni di Taiwan».

«E allora? Magari la dottoressa Chong sta sbagliando. Ha preso un abbaglio. Oppure è a sua volta vittima di qualche manipolazione politica. Non possiamo chiuderci in un hotel in rovina solo perché a Taiwan una scienziata è preoccupata» ribatté il dottorando. Mojca Novak sorrise e con un tono monocorde dove solo Fernández-Casal riuscì a cogliere una punta d’irritazione disse: «Sono stata io a chiamare Tsu-Pin. Martedì mi ha chiamato Wolfgang Schmidt. Forse qualcuno di voi si ricorderà di lui, ha conseguito il dottorato qui nel 2023. Io e lui siamo stati… intimi, come dire, per alcuni mesi, e di tanto in tanto ci sentiamo. Ebbene, Wolfgang dirige il maggior stabilimento di produzione di mascherine FFP3 della Germania, e lunedì ha ricevuto un ordine da un’azienda statale cinese che è ottanta volte superiore al più grande ordine che abbia mai ricevuto. Gli hanno svuotato i magazzini, e i committenti gli hanno fatto capire di avere budget illimitato. Un suo collega australiano, che ha una fabbrica di FFP3 a Manila, gli ha detto di aver ricevuto la settimana scorsa un ordine gigantesco da un’azienda di Pechino».

«Tre indizi non fanno una prova, Mojca. Io non ho alcuna intenzione di trasferirmi con te in un hotel abbandonato solo perché i cinesi fanno incetta di FFP3» sbottò il dottorando. «Non ti obbliga nessuno, fa come vuoi – rispose la scienziata slovena –. Altre domande?» Rita, che per alcuni anni era stata consigliera comunale a Vigo, fece notare che forse sarebbe stato utile informare il sindaco, e magari anche il primo ministro. «L’ho fatto. Ho informato il ministro della scienza e il suo capo-gabinetto, nonché il presidente della Repubblica della Slovenia, il consigliere sanitario della presidente degli Stati Uniti, il sultano dell’Oman, il presidente della Commissione europea e la segretaria generale delle Nazioni Unite. Sono gli unici politici di cui ho il numero telefonico, ma sinora mi hanno risposto solo il sultano e la signora Omondi. In ogni caso non faranno nulla. I politici tendono a prendere decisioni drastiche solo quando è troppo tardi».

Fernández-Casal si schiarì la voce. Come direttore dell’Istituto doveva necessariamente dire qualcosa. «Mojca, sai quanto io ti stimi. Però non puoi chiederci questo: chiudere l’Istituto e barricarci in un hotel perché ci sono alcuni elementi che, in effetti, sono inquietanti, ma non decisivi. Magari i cinesi stanno facendo incetta di mascherine perché vogliono dichiarare di nuovo guerra all’India, e temono attacchi chimico-batteriologici. O magari qualche riccone del Guangdong vuole avere il monopolio delle mascherine FFP3, per poi rivenderle a prezzi stellari. Che ne sappiamo noi…» Mojca Novak fece una smorfia. «E allora l’allarme di Tsu-Pin? Pensi che una delle più brillanti epidemiologhe della nostra generazione parli tanto per dare fiato alla bocca?». Il direttore allargò le braccia e disse che, anche se avesse voluto darle retta, la legge non gli consentiva di chiudere l’Istituto. La scienziata slovena non ribatté, ma rivolgendosi a tutti chiese quanti fossero disposti a seguirla. Alzarono la mano in venticinque, quasi tutti ultraquarantenni che ricordavano bene il biennio del Covid-19. «Fate le valigie, e attenetevi scrupolosamente alle istruzioni che vi manderò via mail. Potete portare con voi il nostro partner, i vostri figli o altri conviventi» disse seccamente Mojca Novak. Fernández-Casal capì che bruciava di una rabbia gelida, e che era molto delusa da lui, ma non disse nulla.

Il direttore dell’Istituto passò la notte in bianco. Mojca Novak era chiaramente un genio, ai livelli di Pasteur o Marie Curie. Però si rifiutava di credere che il mondo fosse sull’orlo di una nuova pandemia globale. Aveva trentacinque anni quando era scoppiato il Covid-19; si ricordava con dolorosissima vividezza l’angoscia di quei giorni, il conteggio dei morti che continuava a salire, la paura di indossare una mascherina sino alla fine dei giorni. Suo nonno era morto di Covid-19, così come il suo mentore, il professor Cabell. Nel 2020 sembrava che la Spagna intera fosse sul punto di collassare, al pari dell’Italia, del Regno Unito, degli Stati Uniti (che avevano anche corso il rischio di un golpe). Solo i vaccini, solo la scienza avevano salvato il mondo dal collasso.

E ora Mojca, come un secco e argentato uccello del malaugurio, gli annunciava che la storia stava per ripetersi, non sotto forma di farsa ma di catastrofe. Ovviamente anche lui sapeva che da anni attivisti, scienziati e giornalisti d’inchiesta continuavano a lanciare allarmi sul rischio di una nuova pandemia. Gli allevamenti intensivi di bovini, pollame, suini, ovini e caprini che continuavano a spuntare come funghi in Asia e Africa erano bombe biologiche a orologeria che prima o poi, inevitabilmente, avrebbero fatto scivolare il mondo in un nuovo inferno come nel 2020-21. Certo, ormai in Europa c’erano più vegetariani che cattolici, e la pseudo-carne, la carne sintetica e la entocarne sfamavano due miliardi di persone, ma per ogni newyorkese che passava al veganesimo, per ogni madrileno o capetoniano che rinunciava al pollo per prodotti succedanei, c’erano centinaia di nuovo borghesi cinesi, indiani, nigeriani ed egiziani che invece reclamavano la loro succulenta braciola di maiale o il loro hamburger di manzo. Da decenni gli occidentali si ingozzavano di carni rosse, macellando miliardi di animali innocenti e devastando la biosfera, che titolo morale avevano per vietarle ai cittadini d’Asia e Africa?

La mattina dopo discusse della cosa con la moglie, che smozzicando un biscotto al farro gli disse: «Lo sai, io non ho mai sopportato quella donna. È dura, spocchiosa e si lava i capelli troppo di rado. Però è un genio, e non parla mai a sproposito». Il marito era stupito. «Quindi saresti disponibile a trasferirti nell’hotel con lei?» Lei annuì. «La prospettiva è terribile, ma persi due amici per colpa del Covid-19. Non voglio correre rischi. E non voglio farli correre a nostra figlia. Quindi se ci sembra fondato l’allarme della slovena, diamole retta». Fernández-Casal finì di bere il suo caffè. «Può essere come non essere». «Beh, chiama Josè. Lui lavora al GCED, chi può disporre di informazioni migliori?»

Nel 2024 gli Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito, il Giappone e l’Unione Europea avevano creato ad Ottawa quello che sarebbe dovuto diventare, secondo il presidente Biden, il centro di riferimento mondiale nella lotta alle epidemie. Il progetto purtroppo non era mai decollato del tutto, ma il GCED era riuscito a resistere. Isola scientifica in una città più dedita alla politica di corto respiro che al progresso di lunga durata, faceva parte di quell’arcipelago di università, centri di ricerca, organismi internazionali e cancellerie che decidevano la politica sanitaria globale. E il vice-segretario del GCED era Josè Facundo Taccon, un italo-argentino che Fernández-Casal conosceva dai tempi duri ma stupendi dell’università a Barcellona. Quando lo chiamò l’italo-argentino non gli rispose allegramente come suo solito, ma in tono lugubre, quasi funereo. Disse solo: «Sì Gogu?» «Josè, ma è vero che in Cina sta per scoppiare un casino peggio del Covid?» Ci furono dieci secondi di lunghissimo silenzio, che mozzarono il respiro a Fernández-Casal, e poi l’amico disse: «Tu come cazzo fai a saperlo?»

L’Istituto chiuse due giorni dopo, formalmente per una derattizzazione urgente. Quasi tutti i membri dell’Istituto si trasferirono nell’hotel di Mojca Novak, portando con sé mariti, mogli, compagni, compagne, figli, figlie, figliastri, figliastre, fratelli, sorelle, amanti, padri, madri, nonne e nonni. Una dottoranda lettone fece una colletta per pagare il biglietto ai genitori da Riga, Rocco Broggi fece arrivare dalla Romania la fidanzata e da Ostia il fratello, la nonna e i genitori, una segretaria portò con se cinque gatti e due cani. A tutti fu misurata la febbre e fu effettuata un’analisi del sangue, dell’urina e della saliva. Nel giro di una settimana l’hotel ebbe solo due camere libere. La più grande e spaziosa, con una vasca gigantesca e una terrazza maestosa, Mojca Novak la riservò a se stessa e ad Aratz, che si era conquistato la sua stima portando con sé dieci revolver, venti fucili da caccia e un drone da sorveglianza. «Essere il nipote sbirro di un terrorista etarra ha i suoi vantaggi» si limitò a commentare la scienziata.

Quando il SARS-CoV-48 divenne un’emergenza globale Mojca Novak e la sua unità avevano allestito nei campi da tennis dell’hotel due serre per la coltivazione del Lentinula gallaicum novakianum. Nel frattempo le quattro segretarie dell’Istituto avevano spedito, tramite corriere speciale e urgentissimo, spore del fungo a un migliaio di referenti della scienziata: dal docente di microbiologia a Oslo al ricercatore di nuove tecnologie alimentari a Modena, dall’attivista per i diritti degli animali a Seul all’agronoma permaculturista a Gaborone. Erano persone che Mojca Novak aveva conosciuto da quando era diventata famosa, di persona o in videocall, e che le avevano fatto una buona impressione: dato che non aveva più la memoria di un tempo, si era annotata in un libretto nome, età, numero di telefono o indirizzo email di ciascuno, e aveva dato il libretto (dalla copertina gialla, con lo scarabocchio di un fiore sopra) alle quattro segreterie.

«La verità è che non si può fare affidamento sui governi e men che meno sulle grandi aziende, ma sulle persone – spiegò loro Mojca Novak –. Senza dubbio non tutti coloro che riceveranno le spore riusciranno a far partire dei centri di coltivazione per rifornire di spore il resto della popolazione, ma molti di loro sì, ce la faranno, in modi che neanche riusciamo a immaginare. Le persone buone, lavorando con altre persone buone, possono compiere veri miracoli, se si mettono d’impegno, perché il loro avversario più grande non è il male, ma l’indifferenza».

Quando le quattro segretarie udirono quelle parole così cariche di umanità, rimasero di stucco. Mojca Novak era famosa per essere laconica e distaccata, i suoi gelidi discorsi alle feste di Natale dell’Istituto erano sempre riusciti a smorzare l’entusiasmo degli astanti. La pandemia, pensarono, era appena iniziata, e già il mondo era sottosopra.

5.

Nell’inverno del 2050 i milleduecentoventinove pacchetti spediti dalle quattro segretarie (che meritano di essere citate, perché senza di loro la scienziata slovena non ce l’avrebbe mai fatta: l’asturiana Anxelina Bravo Díaz, la cagliaritana Marta Scaffidi, l’algerina di Orano Fatima Ramdani e la moldava Tamara Stratulat) iniziarono a sortire i primi effetti. Una giornalista di Genova creò il suo mini-centro di coltivazione del “fungo di Mojca” sul tetto del palazzo che ospitava il suo ex giornale, ormai fallito; una ricercatrice di Tunisi allestì il suo mini-centro di coltivazione nella terrazza di una grande discoteca; una coppia di floricoltori di Belgrado riconvertì le serre di fiori in serre per la coltivazione del Lentinula gallaicum novakianum, e loro figlio ingegnere costruì una flotta di piccoli droni per distribuire le spore in tutta la città; un sacerdote di Catania aprì alle pendici dell’Etna il primo mini-centro del Mezzogiorno, in un’azienda agricola requisita a un clan mafioso; a Bologna il Dall’Ara fu adibito dalle autorità comunali ad hub pubblico per la coltivazione del fungo.

Per decenni le terrazze condominiali erano state terre di nessuno. Altopiani vasti e disabitati, come scriveva un poeta romano, Valerio Magrelli, agli inizi del XXI secolo. Nell’inverno del 2050 iniziarono a tornare a nuova vita. Complice un gennaio intiepidito dalla catastrofe del cambiamento climatico (che neppure la più atroce delle pandemie poteva fermare), le terrazze dei condomini di Lione e Seul, Varsavia e Vancouver, Verona e Tirana si riempirono di serre artigianali, non meno che nei caseggiati e nei palazzoni afosi dell’emisfero boreale. E lo stesso accadde all’interno degli appartamenti di Manhattan, delle monofamiliari del Midwest, dei loft di Berlino e dei cubicoli di Hong Kong. Ovunque si coltivava il “fungo di Mojca”, perché procurarsi del cibo era, per gran parte della popolazione mondiale, sempre più difficile. Nel giro di pochi mesi le spore si diffusero in tutto il pianeta, e la fame iniziò a scomparire.

I blackout erano sempre più frequenti, nessuno osava più mettere piede in strada, e gli unici datori di lavoro che non chiudevano i battenti erano le forze armate e pezzi di amministrazioni pubbliche (oltre al GCED e ai pochissimi laboratori impegnati nella spasmodica ricerca di un vaccino). La vita però continuava. I condomini, resi alimentarmente autonomi dal Lentinula gallaicum novakianum, si trasformarono in microscopiche repubbliche, in cui nessuno poteva entrare e da cui nessuno voleva uscire, e in alcuni casi (a Cadice, a San Pietroburgo, a Bristol, a Mityana) ebbero persino l’ardire di proclamare la loro indipendenza formale dallo stato di appartenenza, eleggendo il proprio presidente e i propri ministri, o proclamando (successe a Fermo) dei soviet condominiali con tanto di bandiera rossa; fatto  ancora più mirabolante, condòmini che per decenni non si erano degnati di uno sguardo capirono che, per sopravvivere decentemente, dovevano unire le forze, e fare di tutto per ricostituire, su pianerottoli e terrazzi, un po’ di quella vita sociale persa a causa del SARS-CoV-48.

Se nel 2020 la gente aveva cercato di combattere la paura pandemica cantando, nel 2050 tutti coltivavano il fungo, e si scervellano per inventare nuove ricette a base di Lentinula gallaicum novakianum. Ogni condominio sviluppava le sue, e spesso venivano organizzati grandi barbecue: si era scoperto che il fungo, dopo essere stato lasciato a seccare sotto il sole per due o tre giorni, grigliato aveva quasi lo stesso sapore della carne alla brace, mentre marinato nell’aceto e poi frullato acquistava la consistenza di una salsa densa alquanto gustosa, ottima come condimento per il fungo grigliato. Un anziano chef di Durban per sbaglio ne immerse un pezzo in una tazza di rooibos caldo, si azzardò ad assaggiarlo, e scoprì che il fungo pregno di infuso sapeva vagamente di cioccolato fondente. In Liguria il pesto di Lentinula gallaicum novakianum riscosse un certo successo, nel vicentino scoprirono che il brasato di fungo accompagnava molto bene la polenta.

Nel novembre del 2052 un team di ricercatori dell’Università della South California sviluppò finalmente il primo vaccino contro il SARS-CoV-48. Quattro mesi dopo un team di scienziati belgi, tedeschi, italiani e norvegesi diede al mondo un secondo vaccino, e nel 2053 anche i cinesi e gli indiani svilupparono il loro. Nel 2056 la pandemia era finalmente sconfitta, e il mondo iniziò a tornare, cautamente, alla normalità. Alcuni stati non esistevano più (incluso uno dei più venerandi, il Regno Unito, disgregatosi in sette diversi staterelli), erano morte 235 milioni di persone, la Cina aveva occupato il Laos e alcuni grandi condomini rifiutavano di aprire i cancelli e rinunciare alla sovranità che si erano auto-attribuiti, ma la civiltà umana era salva.

Nel maggio 2056 anche l’hotel dove si erano rifugiati Mojca e i suoi colleghi riaprì finalmente i cancelli. In quei sette anni erano morte tre persone (il padre di una dottoranda, un tecnico di laboratorio alcolizzato e la nonna del ricercatore Broggi), due gatti e un cane, ma in compenso erano nati sedici bambini, nonostante Mojca avesse consigliato a tutti di ricorrere a metodi anticoncezionali durante gli amplessi, perché «un mondo sovraffollato e in preda a una grave pandemia non necessita di ulteriori bocche da sfamare». La prima a uscire dall’hotel fu proprio la scienziata slovena, armata di fucile e scortata da Aratz; mettendo piede sull’asfalto crepato dalle erbacce e sgretolato dagli elementi, disse: «La ricostruzione richiederà almeno due decenni». Aratz annuì mestamente e si accese la prima sigaretta da quando aveva smesso, tre anni prima.

Nel 2057 Mojca vinse il Nobel per la pace, e anche se non lo diede a vedere troppo, tale fu la sua gioia che accettò di sposare (con rito civile, e senza viaggio di nozze) Aratz, a condizione che questi rinunciasse definitivamente al fumo e leggesse almeno tre opere di Slavoj Žižek. Il poliziotto accettò.

TAG: Covid-2049, fantascienza, futuro, racconto
CAT: Letteratura

Nessun commento

Devi fare per commentare, è semplice e veloce.

CARICAMENTO...