Dario Voltolini – Invernale – Finalisti Strega 2024

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9 Giugno 2024

Dario Voltolini – Invernale – La Nave di Teseo 2024

«Col tema importante si vince sempre, ricattando il pubblico» diceva Nanni Moretti. E quale tema è più importante della morte del babbo? Qui siamo. Questo è il tema del romanzo che abbiamo tra le mani. Una nuda, disadorna cronaca, con qualche segno di belluria estetica sparsa qua e là a guarnire  il manufatto.  Cosa fare visto il tema delicato e sensibile? Si procede nella critica o si lascia perdere? L’apologo che ci salta in mente per l’operazione artistica che ci viene proposta è il seguente. C’era una volta la réclame televisiva ancora sugli schermi al momento della narrazione di cui intraprendiamo la lettura – Torino anni ’70 – in cui il gatto Silvestro cercava disperatamente di acciuffare il canarino Titti. Finché, dopo una serie di corse e mancati colpi, il perfido canarino giallo (le vittime dei cartoni talora sono perfide) si metteva su una scatola di conserve DeRica, e allora il gattaccio mormorava sconsolato: «No, su DeRica non si può!». Non si può perché si rischia di colpire il bene del prodotto che si reclamizza. Ora, il problema del nostro apologo è proprio questo: il critico letterario o della cultura in veste di gattaccio Silvestro dovrà ugualmente tentare di  colpire l’autore-canarino che furbescamente s’è messo sopra la scatola del «tema importante» senza fracassare quest’ultimo? Certo che sì. La critica avveduta e responsabile nonché al servizio del lettore consiste proprio in questo: nel catturare il canarino-autore lasciando indenne la scatola. Acciuffare il canarino non vorrà dire  attaccare il «tema importante».

Ci limiteremo pertanto nel resoconto della nostra delucidazione critica a evidenziare i motivi di insoddisfazione di natura prevalentemente estetica non di contenuto, il come non la cosa, che ci hano colto nel corso della lettura, fermo restando la libertà assoluta dell’artista di porre la propria materia come meglio crede sia nella forma che nel contenuto. Se ve lo ricordate questo viene detto anche da Sterne nel Tristram Shandy laddove salta due capitoli, il diciottesimo e il diciannovesimo del nono volume, per inserirli appena dopo il venticinquesimo, e aggiunge: «All I wish, that it may be a lesson to the world to let people tell their stories their own way» («Tutto quello che desidero, è che possa essere di lezione al mondo lasciare che la gente narri la propria storia nel modo che più le piace». Libertà assoluta per l’artista dunque ma ne reclamiamo una analoga per il critico. Rispettosa e puntuale.

Apriamo il “romanzo” e leggiamo: «Di fronte a ogni banco uomini e donne si spingono e parlano forte. Sembrano una versione insurrezionale della Borsa di Wall Street». Perché insurrezionale? ci chiediamo cos’hanno di sovversivo le persone al mercato?  Certo l’autore sa che quello delle grida nelle borse di tutto il mondo è un fenomeno cessato negli anni 90, trent’anni fa, con l’avvento delle borse telematiche e che questa scena che offre al lettore è buttata lì, una stampa  d’epoca anni Settanta probabilmente per fare colore, ricorrendo a una immagine desueta e alterandone il significato. Ecco un piccolo  esempio di qualunquismo del significante… Seguono quattro-pagine-quattro di spettacolare descrizione di squartamenti di alta macelleria – il babbo è macellaio di mestiere – dove scorgiamo, nella insistita descrizione soltanto un realismo sdato e scolastico e probabilmente l’autore vi ha tentato il «pezzo di bravura». Ma, ecco l’incidente.  La lama colpisce il pollice che quasi si stacca ma non del tutto. Da qui parte l’infezione e indi il triste e ferale sviluppo. La nuda e dolorosa cronaca del decesso del babbo, del suo calvario in un ospedale di Parigi, è il tema del nostro romanzo con qualche coloritura affettuosa della personalità del babbo, informato ed elegante tifoso di calcio e fumatore di Nazionali, non un semplice tifoso va detto. Non abbiamo altre informazioni sulla vita e la società torinese del tempo della narrazione. «Siamo nella seconda metà degli anni settanta del Novecento. Gino è mio padre. Vedo il piombo rapprendersi. Il suo odore si mescola a quello dei chiodi di garofano» è la nuda nota esplicativa aggiunta. A noi sono venute in mente le atmosfere torinesi delicate, umbratili  ed eleganti de “La suora giovane” di Giovanni Arpino. Uno squasso di nostalgia assoluta ci coglie per altre epoche narrative.
Proseguiamo la lettura e ci imbattiamo in questo paragone. «Come l’acqua della falda trova i suoi percorsi per salire alla superficie della piana, così un suo giacimento interno comincia a fare qualche capolino».  Si può istruire un paragone metaforico come questo? il paragone continua per mezza pagina senza che si increspi in qualcosa di forte o di bello che vi colpisca nelle vostre aspettative estetiche. Un tema sembra da scuola di scrittura creativa, di chi non sappiamo quando abbia letto l’ultima volta una pagina di Flaubert, di Gadda o di Busi e ne abbia sentito una qualche eco interiore prima di mettersi davanti al santo PC.
Leggiamo. «Va a letto, si addormenta. C’è un momento di trapasso dalla veglia al sonno in cui sembra albergare tutto il riposo del mondo, ma poi, per un controsenso di quelli che sappiamo tutti, proprio addormentandosi lo si saluta, ce ne andiamo via, ci congediamo dal riposo, che scende come un peso di ferro nell’acqua». Delicatezza da tre palle un soldo annotiamo feroci a margine.
Altro brano. «E lì nuovamente il tempo si scassa e perde la sua credibilità, rotola fuori dagli orologi un altro tempo, lo fa con un ghigno da un lato e una fissità da maschera giapponese dall’altro. E anche a casa, lo stesso. Che ore sono? Ore? Sono?».
Un lirismo sfranto…Una levigatura da orafi della parola, ma un piccolo nulla incartato. L’irritazione comincia a sommergerci: dove siete scrittori torinesi  Natalia Ginzburg e Fruttero&Lucentini e Giovanni Arpino? «Mais où sont les neiges d’antan?» ripetiamo scorati con Villon, «Mais où sont les neiges d’antan?». Ma quale libro stiamo leggendo? Possibile tutto ciò nel 2024 dopo tremila anni di civiltà letteraria?
Continuiamo.
«Le cose che volavano agilmente adesso planano, adesso sbattono le ali da condor per non sfracellarsi sulle piastrelle dei camminamenti. Il tempo passa».
Tremendo questo passo. C’è da buttarsi a terra tarantolati e schiumanti, in preda a convulsioni  di sconforto. Non si può scrivere così. È difficile immaginare un lirismo così organizzato, impostato e fallito. Come di chi fa buche nella sabbia e ci cade lui per prima.

Ma emergono anche dei non sensical elevati a riflessione pensosa e ornata oppure frasi che girano in tondo a circolo vizioso. Alcuni esempi: «E poi? Cosa c’è in quel punto? C’è illogicamente qualcosa oltre quel punto, in un centro più centro nel centro del punto stesso? Al contrario della temperatura della forza che si espande, quella stessa forza, andando al contrario, è fredda, sempre più fredda», oppure «Le cose sono il tempo da aprire e concludere per aprire altro tempo. Altre cose», ma anche «Preleviamo solo le onde di superficie del moto dell’oceano, ecco cos’è».

Le chiacchiere del babbo sul calcio e i suoi eroi già novellati da infinite “Gazzette” e la distinzione profonda ma orfica, tutta paterna, tra “classe” e “stile” divisata tra un fegato e l’altro, una sigaretta Nazionale e l’altra, restano nell’evocazione e nella mitopoiesi tutta chiusa nel recinto familiare, anche perché vengono offerte nei vapori di un ricordo tutto personale, con scrittura perlopiù piana  che non accende e non coinvolge. Non sappiamo  se continuare a leggere una prosa così  respingente non catalizzata da una narrazione strutturata ma rapsodica, e da una rammemorazione trasognata, a successione di quadri, con assurdi tempi all’infinito talvolta – cfr cap.12- e più spesso in un fisso, snervante e cesareo presente storico, così marmoreo, così poco evocativo tanto più se aggiunto a frasette spezzate, paratattiche. Una rammemorazione permeata da quella ontologia precaria tipica delle istantanee del «qui e allora», secondo il saggio di Barthes sulla  fotografia “Chambre claire”, e comunque tutta chiusa nel bozzolo di un io filiale intenerito. O quando, ripresosi dalle fasi di stanca (perché il lirismo è costoso e comunque va centellinato e distribuito sapientemente nel corpo del Testo), riattacca con una scrittura intonata, ispirata, alticcia che comunque non invita il lettore a un colloquio, pur ammollandogli di tanto in tanto il pezzo solipsista di bravura: «Essere stato a contatto con qualcosa che trascende e portarselo da quel momento in poi nella struttura stessa della propria percezione». E subito dopo ecco il gorgheggio lirico-melico o l’osservazione preziosa e pensosa: «il riposo vero non è stare, ma andare nel flusso che contribuisci a stabilire». E talvolta si aprono brani debolucci di senso, ma tanto suggestivi! «Chi ha cognizione di un intero lo vede come tale anche se nella sua pupilla ne entra solo un frammento, non importa quale».  Fortuna che ogni tanto atterra in momenti di confortante realismo: «telefona al grossista per ordinare altri bidoni di trippa o altre casse di polli, con una parte del cervello si immagina». Realismo Signori! Scrive Dostoevskij da qualche parte.

Diciamo pure che nei momenti di stanca di una scrittura che certamente non ci ha presi per la gola, si è cercato solo di non ricordare, per rispetto  al tema qui proposto, ma la consonanza ci ha travolti ugualmente di quando in quando, “Il macellaio” di Alina Reyes, e  la forza sorgiva, trascinante, dell’Eros scatenato alla vista di quei  tocchi di carne… nostri momenti felici di lettura dopotutto dove comunque viene mostrata un’altra via per combinare letteratura e macelleria.

Il padre di cui solo all’inizio e una volta sola viene chiamato Gino, non viene mai chiamato nel corso della narrazione, forse per pudore, «papà» o «mio padre» o semplicemente Gino ma col freddo pronome  «Lui»: è il pronominato insomma.

Ora, la serie degli atti paterni è ordinaria e antinarrativa per eccellenza. Esposta poi in maniera anodina, cioè non inserita in una trama con la sua curvatura di racconto ma come una semplice sequela di atti (prende l’auto, imbocca l’autostrada, la percorre, parcheggia, entra nel palazzo, ascensore, porta ecc ecc) moltiplica la noia in capo al lettore che peraltro non fa fatica a immaginare come va a finire perché lo intuiamo fin dall’inizio. Questo orizzonte di mera riesumazione di gesti sepolti dal tempo disincentiva il patto narrativo. Il lettore s’appisola disperatamente.

La prosa spezzata che ci ha “sconfortati” fino ad ora si trasforma improvvisamente nel sottofinale in un lungo monologo interiore, nient’altro che una schidionata di frasi senza alcuna attrattiva. La vincristina, il farmaco ricavato dalle peonie del Madagascar, non risulta efficace, le continue trasfusioni inutili. Il pronominato muore. «Sarcoma ha vinto, in maniera definitiva» leggiamo…

Appunto finale. Gli ultimi momenti di vita del babbo narrati in intercalazione con le cronache dei mondiali del pallone, benché il padre fosse un tifoso intenditore come sappiamo, ci hanno colpito per l’evidente bizzarria anche se probabilmente l’autore voleva dare loro il significato affettuoso di un omaggio alla passione paterna, o forse, sul piano redazionale, il significato di una torsione stilistica, di una sprezzatura chic, come fa Flaubert nella famosa scena dei “Comizi agricoli” di Madame Bovary dove il fraseggio di un corteggiamento amoroso è inframezzato a una scena di premiazione di una fiera agricola. Un mix di tonalità Alto/Basso insomma. Non sappiamo dire. Resta in piedi tutta la nostra  perplessità.

In conclusione. Il Montale del “Secondo mestiere” che si proponeva  di fare della onesta critica letteraria sarchiando la “savana mobile” dei libri da recensire, ad un certo punto si interroga: «Leggete e vi chiedete: perdo il mio tempo o sto appropriandomi d’un nuovo patrimonio che sarà mio per sempre? La noia che provo è quella dei grandi capolavori o soltanto quella dei libri inutili?»

 

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TAG: Dario Voltolini, Premio Strega 2024
CAT: Letteratura

Un commento

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  1. gabriele.catania 2 mesi fa

    ottima recensione, bravo!

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