Elena Ferrante, e poi il vuoto letterario ostinante

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10 Novembre 2020

Credo di essere un buon lettore che, tuttavia, ha letto davvero poco rispetto a un normalissimo divoratore di libri. In gioventù, durante il liceo e immediatamente dopo, mi invaghii dell’estro universale dei romanzieri russi, e mandai giù tutto il succo amarognolo e dolciastro che quelle letture conteneva, in un sorso solo, come si fa con la vodka, lanciando il bicchiere alle mie spalle. È stato l’unico periodo in cui ho letto davvero tanto, preso da un morbo che durante il corso della vita si è ripresentato in forme più lievi, ma non meno pregnanti. Da allora, infatti, ho smesso di tracannare parole, metafore e deliri in maniera ubriacante. Ho imparato a sorseggiare letture con gradazioni inferiori, talvolta con gusto, altre volte senza farci la bocca. Non sono interessato alla lettura bulimica. Gli ingordi della letteratura leggono di tutto, non si fanno sfuggire niente e sono sempre attenti alle novità. Mica come me, che, da tempo, ormai, mi imbatto nella lettura di un romanzo contemporaneo solo se fortemente motivato, magari sospinto da un’intuizione intimistica. Non mi piace leggere tanto per farlo e detesto scorrere pagine che restano bianche sebbene l’autore abbia fatto di tutto per renderle colorate. Non amo leggere per passare il tempo, ma per viverlo e guadagnarne l’esperienza.

L’ultima volta che sono entrato in libreria con giusta cognizione di causa e non per ripararmi dal freddo, o per godere del feticcio della vista dei libri, scrutando tra gli scaffali con garbata indifferenza, è stato diversi anni fa, per acquistare il primo volume de “L’amica geniale”, di Elena Ferrante, scrittrice apprezzata in Italia quanto all’estero, in special modo negli States, dove, tradotta da Ann Golstein, ha incontrato il favore del pubblico. L’amicizia tra due bambine, seguita passo dopo passo nella natura complessa del loro percorso di crescita, fino a essere l’affiatamento tra due donne, ha rappresentato una bella storia da leggere. Due identità diverse, ma fatte della stessa pasta, vengono raccontate con la giusta dose di veridicità, sovrintesa da un’indagine psicologica che rivela quanto complicata, difficile e meravigliosa possa essere l’amicizia femminile, dove l’attrazione per il cattivo esempio costituisce un necessario processo di maturazione, mentre la forza reciproca che le due protagoniste traggono dalla loro frequentazione non è sempre frutto di un aiuto reciproco, ma è, talvolta, saccheggio dell’ intelligenza, energia e sentimento dell’altra. Insomma, un bel libro, di quelli che ti rendono partecipi di una storia individuale, narrata senza inutili personalismi ed eccessi di confidenza di origine egoistica.

E non mi son chiesto in maniera maniacale perché l’autrice avesse usato uno pseudonimo, tanto era il mio compiacimento per aver passato in lettura il suo lavoro. Che si chiamasse Elena Ferrante, o Assunta Esposito, poco mi importava. Per me conta il romanzo, il costrutto, la fatica, molto più di quanto indichi il nome dell’autore. Non ho provato alcuna curiosità morbosa sulla sua identità. Francamente, me ne infischio di Elena Ferrante come donna ricca e affermata, possidente di case al centro o di ville in montagna e al mare. E, all’improvviso, mi è sembrato naturale che lei non mettesse la faccia in ciò che fa. Ovvio, lei per me resta l’unica espressione autenticamente letteraria che l’editoria italiana, quella, per intenderci meglio, considerata importante, abbia prodotto negli ultimi dieci anni. Perché confondere il suo volto con quello manierato di ex bancari, imprenditori, personaggi dello showbiz diventati “scrittori di successo”?

La Ferrante è parola scritta, non verso malfermo e blaterato in tv, o arzigogolato sui giornali. È frase rivelatrice all’interno di un senso estetico, non banalità fraseologica microfonata.  È prosa che scorre armonica, non tran tran inespressivo di un vociare strepitante. Ecco, Elena Ferrante, in quest’ottica, ha un volto chiaramente identificabile e inequivocabile, necessariamente diverso da quello dei suoi colleghi e colleghe. In niente e per nessun motivo lei può essere avvicinata a quella poverissima figura di questuante culturale, in giro per microfoni, telecamere e social spazi di sponsorizzazione per promuovere l’ultimo improbabile capolavoro. In tutta coscienza, penso che in questo frangente pescare dall’editoria indipendente, più attenta alla qualità del racconto che all’identità di chi racconta, non rappresenti affatto un rischio, ma una consistente probabilità di garantirsi una lettura entusiasmante e appassionata, regalandosi una piacevole sorpresa. Io, per esempio, ho appena comprato “La collagista”, di Francesca Mazzucato, edito da “Arkadia”, nella collana “SideKar”. Un libro che per ora ho solo annusato. Ve ne parlerò a breve.

 

TAG: Arkadia Editore, cultura italiana, letteratura, Romanzo
CAT: Letteratura

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