Figli

:
4 Marzo 2022

In tutte le giovani donne, in ogni ragazza

freme lo spreco del mestruo buttato

(il lungo, estenuante rubino

fluviale destinato a interrarsi,

sperdendosi sterile, inforrandosi

vano), che potrebbe fecondo

riprodursi, germogliare:

e forse ogni giovane donna lo spera,

lo sogna ogni ragazza,

un dio-fiume del sangue

nutritore (Varuna, Alfeo).

Fertile d’erba, di alberi,

di piccoli folletti sotterranei

– larve, crisalidi notturne.

 

E quando si ferma, il fiume,

bloccato da una diga da un masso,

e cresce dilatandosi forzando i margini

(ne nasce uno stagno, poi un lago,

un mare alla fine: a cui dire grazie),

ecco l’assoluto dovere,

il necessario divenire, l’espandersi.

O vita in conchiglia, granello di sabbia

nel molle fondale, o notte cavernosa

che lenta ti fai perla;

e come luminosa come consapevole di forza,

di vittoria sul buio sul non essere

diventi. Presenza, una madre ti conosce,

ti attende in timore in fierezza.

 

In questo modo si sono incontrati, e forse scelti,

immaginati nei lineamenti, somiglianti,

i due: da subito stretti in nodo

di egoismo. Come potrebbe, infatti,

essere diversamente, se si sono mescolati

nel sangue, insieme nutriti

e addormentati, insieme nel ricatto

del nome. Hanno simili gli occhi;

impareranno col tempo a imitarsi

nei gesti, nei modi di dire.

Chi mai oserà separarne

i pensieri e le ombre, anche dopo,

anche nel buio che li nasconderà?

Si cercheranno, magari odiandosi;

continueranno a chiamarsi spauriti.

 

Il primo di loro che avrà mancato lo svegliarsi

susciterà stupore, nostalgia: forse

qualche imbarazzo nel piccolo mondo che abitava

(le sue stanze, così ordinate adesso,

rimpiangeranno odori passi voci).

Col tempo, ogni assenza diventa un’abitudine,

il dolore si stempera, per la stessa indulgenza

dei rimorsi. L’altro, però, quello dei due rimasto,

a lungo non saprà rassegnarsi, mentirà

un probabile sollievo, o irredimibile

disperazione a seconda di chi gli parlerà.

Ma nel fondo delle notti, nelle albe

abissalmente chiare saprà del suo respiro

l’inutile perseveranza, il cieco vagare

del domani. Disobbediente, pigro.

 

Sicuri del loro appartenersi, estranei

invece: oppure simili, ma ereditando

ogni molecola da altro (fossili,

piogge, reami. E ospizi di vecchi,

nozze di timide spose, cani randagi

dietro a un funerale). Nessuno possiede

nessuno, questo hanno imparato

lasciandosi; eppure si nutrivano di sé

per lunghi anni, indispensabili

fingendosi, ma ricattanti.

Più modesti, ora, si temono

quasi indifferenti alla promessa vissuta,

al perdersi futuro, tombale.

Gridano, dunque, la loro ribellione.

 

Da Elegie del risveglio, Sigismundus, Ascoli Piceno 2016

 

TAG: madri e figli, poesia
CAT: Letteratura

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