Guadagnare l’uscita

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30 Novembre 2018

Facce strane oggi in azienda. Si è diffusa in un lampo la notizia della mia uscita di scena.
Sorrisi imbarazzati e untuosi.
Sguardi incuriositi.
Domande di prammatica.

Ma è vero che ci lascia? Ma come mai? Dove va? A cosa ha deciso di dedicarsi? E così via.

Il primo istinto è di rispondere bruscamente, tagliar corto, poi prevale la mia natura conciliante. Rispondo quindi con molta semplicità che mi sembra di aver lavorato e guadagnato abbastanza nella mia vita, posso permettermi di lasciare e dedicarmi a me stesso.

Cosa farò? Niente di particolare, rispondo. Una volta che l’azienda avrà smesso di occupare i miei pensieri, avrò il modo e il tempo per scoprire quello che desidero fare e forse riuscirò anche a farlo.

Espressioni sconcertate, sguardi carichi di perplessità e di obiezioni che solo la timidezza impedisce di formulare esplicitamente.
Si sentono ingannati. Non c’è una sola delle risposte che ho dato che possano accostare senza stridore all’uomo che sono convinti di avere conosciuto.
Mi rendo conto di aver detto cose banali e patetiche.
Le stesse che dicono in queste circostanze quasi tutti gli altri.
Mi trattengo solo dall’affermare che considero questa decisione una svolta oppure la fine di un ciclo.

Penso all’impiegato dell’ufficio spedizioni che è andato in pensione il mese scorso, a sessantacinque anni. Una vera e propria istituzione. Sempre disponibile, gentile, fiero del proprio ruolo. Mai una domanda fuori posto, un gesto o una frase sconveniente, una confidenza o una richiesta  inopportuna . La sua vita era evidentemente costituita dal quel piccolo antro fumoso con le porte a vetri che occupava da decenni, sempre curvo sul tavolo enorme e ordinatissimo.

Quando è venuto a salutarmi e ha pronunciato le frasi di circostanza che oggi mi sorprendo a ripetere , ho pensato: chissà che magone, poveretto, dice così per farsi coraggio, ma è evidente che se potesse resterebbe qui fino alla fine dei suoi giorni.

Chissà invece cosa pensano oggi di me.
Alcuni sicuramente pensano che ho litigato con il presidente.
E’ vero. Non è il motivo delle mie dimissioni, ma è vero. Diciamo che abbiamo avuto una discussione un tantino accesa.

Me ne stavo tranquillo nella mia stanza ad esaminare alcuni contratti, quando lui, attraversando il corridoio che ci separa, si  è infilato nella mia stanza.

Voleva sapere perché negli ultimi tempi  tanti uomini di valore hanno lasciato l’azienda per finire alla concorrenza.
E’ un tipo curioso il Grande Capo. Non nel senso di strano o di bizzarro, proprio nel senso di curioso.
Gli piace sapere il perché delle cose. Gli piace anche farsi delle domande: sostiene che le risposte le sanno dare tutti, mentre la cosa più difficile è farsi delle domande.

Sarà. Il fatto è che tutte le domande alla quali non sa trovare una risposta poi le gira a me.

Anzi, a pensarci meglio, gira a me anche le domande alle quali sa trovare una risposta . Per mettermi alla prova o per cercare una conferma alle proprie valutazioni.

L’ho fissato per qualche secondo. Dio mio, quanto è vecchio, pensavo, perché non se ne sta a casa?
E’ stato un bell’uomo. Fisico atletico, capelli candidi fin da giovane, ma incredibilmente folti, occhi chiari.
Trent’anni fa, quando l’ho conosciuto, era anche una persona di prim’ordine. Lucidissimo, sicuro del fatto suo, svelto nel decidere, orientato alle cose essenziali. Un vero capo.
Adesso è solo un vecchio dal fisico appesantito e con gli occhi acquosi che rimane aggrappato alla poltrona perché non ha alternative ragionevoli.

Del resto che farebbe fuori di qui dalla mattina alla sera un uomo del genere? Niente nipotini perché il figlio sta in America, niente moglie perché è vedovo da diverso tempo, amanti credo proprio di no perché non sembra il tipo, anche se non è mai detto…Non ama il cinema, legge a malapena il giornale, detesta passeggiare, non gli piace viaggiare.
Ho pensato per qualche secondo alla risposta che potevo dargli. Potevo inventarmi la solita complessa analisi pseudosociologica. Potevo rassicurarlo con le statistiche sulle uscite per dimissioni delle altre aziende del settore.

Potevo esibire il dato riguardante le persone che a nostra volta abbiamo assunto sul mercato sottraendole alle imprese concorrenti.

Insomma  potevo confezionare in quattro e quattr’otto la rassicurante non risposta che probabilmente si aspettava e tornare serenamente a fare altro.

Me ne è mancata semplicemente la forza. 
Mi sono sentito molto stanco, l’idea di ricorrere ai consumati automatismi del mestiere all’improvviso, non so perché, mi dava la nausea.

Gli ho detto allora, continuando a guardarlo fisso negli occhi, che aveva ragione a preoccuparsi.

Chi se ne va, ho detto, lo fa sostanzialmente per due motivi: alcuni non capiscono che cosa vogliamo esattamente da loro, altri si rendono conto che non gli consentiamo di esprimersi.

“In pratica”, ho concluso, “quelli che vorrebbero essere guidati non hanno una guida, coloro che vorrebbero imparare a guidare sono scoraggiati.  Rimangono giusto i mediocri e i conformisti.

La faccia che ha fatto! Non avrebbe avuto quell’espressione sconcertata nemmeno se lo avessi insultato.
La discussione che ne è seguita è stata una delle meno concilianti della mia vita di persona conciliante.

Non ho detto quelle cose, come sussurrano i maligni, perché avevo in animo di lasciare l’azienda.
E’ vero però che, nel momento stesso in cui ho cominciato a dirle , ho capito che l’unica cosa sensata che potevo fare era andarmene.
Guadagnare l’uscita.

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CAT: Letteratura

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