I tradimenti umani che nemmeno Dio può guarire, nel romanzo di Alida Airaghi

8 Novembre 2022

In un film del 2016, in italiano intitolato Agnus Dei, ma titolo originale Les Innocentes, le innocenti – sempre questo brutto vizio della distribuzione italiana di deturpare i titoli, in questo caso un intenso e allusivo Le innocenti in un banale, generico e inespressivo Agnus Dei: perché si tratta di suore? – Anne Fontaine racconta la vicenda, dolorosissima, di un convento polacco, le cui suore, appunto, alla fine della seconda guerra mondiale, subiscono uno stupro da parte dei soldati russi invasori, e sette di loro restano incinte. Per nascondere il “disonore”, la madre superiora affida i neonati alla clemenza e provvidenza di Dio, di fatto li abbandona sotto una croce in una campagna gelata dall’inverno. Film di una intensità quasi eccessiva, che tuttavia affonda lo sguardo sulla complessità dei rapporti umani, anche all’interno di un convento, dove dovrebbe regnare la concordia a la reciproca benevolenza.

Alide Airaghi

Alida Airaghi, in questo suo anch’esso intenso breve romanzo – appena 90 pagine – affronta, come Anne Fontaine, il tema dei confini assai labili, sfuggenti, inestricabili, tra bene e male, perfino in un luogo considerato di pace e carità reciproca come un convento. Anche perché non per tutti il bene è bene e il male è male, ma ciascuno ha una propria idea di che cosa sia bene e che cosa male. Ma, comunque lo si affronti, in ciascuno è simile la sofferenza, e per tutti la percezione del male sta proprio nella sofferenza da cui se ne è lacerati. L’azione si svolge in un convento dove sono rimaste solo tre suore. Il lettore conosce le vicende che si agitano nel convento dal diario della madre superiora, che si è imposta di scrivere ogni giorno una pagina sugli accadimenti del giorno e le riflessioni che ne sorgono quasi spontanee. Quasi: perché la percezione di un veleno che inquina i rapporti tra le tre suore, diversissime tra loro, spinge la narratrice alla reticenza quando il male sembra insopportabile, e poi invece la riflessione anche a malincuore ne denuda le radici, le cause, ma – ed è la cosa che fa soffrire di più – anche la gratuità. “Quanto male inutile ci siamo fatte” è la frase con cui Suor Adele conclude il diario. Una delle tre suore, Giuditta, è, a suo modo, un’innocente, nel mondo laico diremmo una stupida, e fa la grazia di scomparire. Solo dopo la sua morte, la superiora, ma non l’altra rimasta, Maria, maligna, invidiosa, riesce a comprendere la “grazia” della sua innocenza. Rimasta sola con la malevola, la rancorosa, la superiora deve affrontare anche il tormento della volontà che cede alla necessità delle situazioni, della fede che vacilla. Ma è proprio l’esempio dell’innocente Giuditta a sostenerla. Soprattutto quando arriva una nuova ospite indiana. La rigida disciplina che Suor Adele vorrebbe imporre si rivela inadeguata non solo alle esigenze della ragazza, di altra cultura, di diversa sensibilità, ma soprattutto alla propria vocazione di amore. Tutte le donne del convento, tranne forse l’ospite, che si limita a un’apparizione fugace, quanto basta a mettere in crisi la convivenza fragilissima delle tre suore, attuano di fatto un tradimento, non tanto della propria vocazione religiosa, quanto della natura di sé stesse, soffocando dentro di sé ogni impulso di tenerezza, di abbandono verso l’altra. Perfino la più meschina delle tre si lascia però alla fine scappare un moto di tenerezza per la superiora, facendo crollare d’un tratto tutto il castello di sospetti e di menzogne che si era alzato o che lei aveva alzato tra loro due, con cattiveria o come un muro di difesa. Ma solo lei? si domanda la superiora. Ciascuno di noi, al momento giusto, sembra mancare alla promessa che nascendo ha fatto, di animale sociale, e ritira la mano che aveva teso, o respinge l’altra che gli si porge, tradisce di fatto il primo impulso di affinità animale, prima ancora che spirituale, che è quello dell’associazione. È la lezione che sembra doversi ricavare dalla lettura di queste intensissime, ma terse, lucide, pagine. Come se nascere uomini c’imponesse un compito, al quale invece non ottemperiamo: essere appunto uomini, Menschen, direbbero i tedeschi, e, per dirlo con una parola latina, finiamo per tradire appunto l’humanitas che dovrebbe essere la nostra essenza, quod quid eramus esse, essere ciò che eravamo, direbbe il teologo San Tommaso D’Aquino, parafrasando il τὸ τί ἦν εἶναι (to ti ên einai), essere ciò che si era, di Aristotele, che la Scolastica aveva sintetizzato con il termine essentia o quidditas. Ma giustamente Tommaso d’Aquino ritiene l’espressione aristotelica più complessa e inclusiva. Come nel film di Anne Fontaine, nel romanzo di Alida Airaghi, il mondo chiuso, particolare, di un convento si fa metafora delle chiusure, dei tradimenti, delle perfidie, degli egoismi che abitano anche il mondo fuori del convento. In una prosa senza retorica, ma che adopera tutti gli strumenti dell’ars rethorica, Airaghi costruisce passo passo un mondo d’incomprensioni reciproche che si regge sul fragilissimo equilibrio della reciproca diffidenza. Mai che a qualcuna delle donne venga in mente, se non a barlumi, che la diffidenza si potrebbe mutare in comprensione, se appena si tollerasse nell’altro ciò che inquina anche i nostri pensieri, i nostri atti: l’incapacità di dominare i nostri peggiori impulsi, proprio quelli che giustificherebbero la diffidenza degli altri. Il pentimento del male, coscientemente involontario, ma inconsciamente voluto, che s’infligge agli altri, ci si ritorce contro con un sentimentale quanto insufficiente moto di pentimento. Sentimentale perché istintivo, ma non maturato nella coscienza di sé; insufficiente perché il male compiuto non si può abolire. “Non puoi fare che il fatto sia disfatto” dice Lady Macbeth al marito. Shakespeare, al solito, ci squarcia la tela che nasconde ai nostri occhi la realtà: il male non è male perché dettato da cattive intenzioni, ma perché irreparabile, “irredimibile” direbbe Eliot. Il romanzo è pieno di citazioni bibliche e da Sant’Agostino. Non sono pertanto estranee, qui, le citazioni da Aristotele, Tommaso, Eliot, ciascuno, a suo modo, o suggeritore o ripetitore di riflessioni che il pensiero cristiano svolge fin dai suoi inizi. E poiché il pensiero cristiano sta alla base del pensiero europeo e moderno, o perché lo si sviluppi o perché lo si contrasti, non finisce mai di rivelarci anche i lati più nascosti di noi stessi. “It was a theme / For reason, much too strong for fantasy”, Era un tema / per la ragione, troppo forte per la fantasia, direbbe John Donne, il poeta mistico inglese nel quale pensiero e sentimento sembrano fondersi in un’unica percezione della realtà. Ed è proprio il lavoro, prezioso, di Airaghi, anche lei poeta, quello di districarsi in questo labirinto. Dalla lettura se ne esce non certo confortati – quando mai l’arte dovrebbe essere un conforto? – bensì più consapevoli – ed è questo il compito dell’arte – di quanto sia intricata l’indagine sulla vita degli uomini. E, forse, anche degli animali, degli alberi: la scena in cui la madre superiora si sdraia dentro un bosco, si sveste del velo, è tra le più toccanti del racconto – ne è anche il nodo, perché scatenerà nell’invidiosa Maria, la suora maligna, il ricordo, e le recriminazioni, della conversa indiana – in quel punto Suor Adele afferra la propria limitatezza, la propria insufficienza. Ma proprio per questo si fa più matura ad affrontare la limitatezza degli altri. E su questa generale umana limitatezza di tutti noi si chiude il diario: “Quanto male inutile ci siamo fatte”. Si badi: non “hai fatto”, o “ho fatto”, ma “ci siamo fatte”. Sta in questo plurale inclusivo il senso profondo della consapevolezza raggiunta. Del resto: non aveva proprio Gesù detto: “Non giudicare, se non vuoi essere giudicato”?

Alida Airaghi, Il velo, Todi, Tau editrice, 2022, pagg. 92, € 12,00

 

 

TAG: letteratura, libri
CAT: Letteratura

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