Il cristianesimo sovversivo, i libri, il teatro: colloquio con Tiziano Scarpa

1 Febbraio 2016

Il ritorno di Tiziano Scarpa al romanzo, dopo il grande successo di Stabat Mater (2008) e Le cose fondamentali (2010), porta l’immagine di un geco dentro una lavatrice.

Un abbinamento certo curioso, ma non troppo sorprendente se si conosce anche solo un po’ la capacità dello scrittore veneziano di usare i dettagli meno scontati per evocare mondi e storie.

Il geco e la lavatrice sono due elementi che hanno una loro importanza nelle storie di Federico e Adele, protagonisti delle vicende di un romanzo, Il brevetto del geco (Einaudi, 336 pp., 20€), di cui non vi svelo troppo, non tanto e non solo per timor di “spoileraggio”, quanto perché il riassumerne le vicende rischia di non rendere giustizia alla coinvolgente densità delle pagine.

Piuttosto che raccontarvelo o di trovare un po’ di aggettivi giusti per dirvi che mi è piaciuto e ve lo consiglio (perché in effetti mi è piaciuto e ve lo consiglio), ho preferito coinvolgere Tiziano Scarpa in una chiacchierata, sul libro, ma non solo. Lasciandola andare dove voleva lei, come ci succede ogni tanto anche di persona, intabarrati nelle sciarpe dietro a un bicchiere di vino in qualche osteria vicino a casa.

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Inizierei questa nostra conversazione dal tuo ultimo libro, Il brevetto del geco. Nella prefazione tieni a precisare che hai scelto la forma romanzo invece di un racconto giornalistico o storico per una serie di motivi che, sebbene ovviamente il tutto sia funzionale alla struttura narrativa, mi sono sembrati estremamente interessanti nel delineare una sorta di forza etica del romanzo in un’epoca in cui storia, cronaca e giornalismo sembrano piuttosto screditati da imprecisioni, sensazionalismo, faziosità varie, che ne pensi?

La prefazione del romanzo è scritta da una misteriosa entità, l’Interrotto, che non ha nessun potere, perché non ha nemmeno un corpo: infatti non è mai nato, è un essere fatto di parole. Così per lui scrivere è l’unico modo di esistere. In questa epoca, imprevedibilmente, abbiamo visto che un vecchio catorcio come il romanzo, dato per morto mille volte, continua a dare voce e consistenza politica a individui senza potere, senza corpo civile. In certi casi lo ha fatto in maniera ancora più potente della rete.

Questa forma romanzo prende però, l’hai ricordato, l’aspetto di una narrazione “disincarnata”, in cui le parole stesse (nonché l’entità che contrappunta il racconto) si riposizionano continuamente nei confronti delle vicende. In tutto il Novecento abbiamo assistito, in forma più o meno estrema, a questa necessità di continuo riposizionamento dell’autore, tu che esigenze senti oggi?

Dici bene: il Novecento. Che per me significa due cose: liberazione e mal di testa. Il Novecento ha aperto le gabbie, ha liberato e messo in pratica tutte le potenzialità latenti in due millenni e mezzo di scrittura e di arte, ha realizzato ogni possibilità, ha scoperto tutti i limiti del linguaggio, li ha scavalcati ed è andato anche a sbatterci addosso: una scorpacciata, una festa della conoscenza e dell’esperienza estetica. Dall’altro lato, il Novecento ha patito il mal di testa della riflessività esasperata, dell’eccesso di teorizzazione che si insabbia nella sterilità, dell’arte che diventa unico contenuto di sé stessa.

Avendo letto il tuo libro con grande facilità, non credo tu possa temere che al lettore venga il mal di testa…

Spero proprio di no! Io non voglio gettare via il primo di quei due aspetti del Novecento, quello che libera le energie e attua le potenzialità. Ma non voglio semplicemente “raccontare una storia”, anche se Il brevetto del geco è un romanzo che racconta eccome una storia, con una trama che vuole catturarti, con dei personaggi e una narrazione in terza persona. Voglio far sentire la pasta delle parole in azione, che brulicano, petulanti, allegre, malinconiche: diciamo che mi sento come un regista che ci tiene a usare il montaggio e la fotografia del suo film come se fossero dei personaggi in più, e non solo dei mezzi.

Nel libro è centrale il mondo dell’arte, quella italiana in particolare. So che sei un buon conoscitore delle dinamiche, a volte anche un po’ assurde, di questo mondo. Come mai questa scelta di “campo”?

L’arte contemporanea è dominata dai mediatori (curatori e galleristi), cioè da pochi “guardiani dei cancelli” che decidono chi è dentro e chi è fuori: e questo succede proprio nell’epoca in cui, invece, negli altri campi, conta molto di più il pubblico. In apparenza, l’artista è ancora presentato come un creatore romantico, in realtà è un fantoccio innalzato dal sistema dei mediatori: questo è interessante, perché qui c’è un nodo conflittuale fra sistema e individuo. Che cos’è un artista? Semplificando molto: è qualcuno che tenta di mettere la sua visione dentro i rettangoli che circolano nel mondo. Il rettangolo è la forma magica del dominio: gli schermi, i dipinti, le foto, i video, le lavagne, i cartelloni pubblicitari, i tabelloni, le pagine, le vignette, le vetrine… Comanda chi detiene i rettangoli, chi riesce a metterci dentro ciò che vuole e diffonderlo su larga scala. La rete ha dato l’accesso ai rettangoli a tante persone: ma ha anche alimentato le aspettative e, di conseguenza, le delusioni e le frustrazioni.

Rettangoli, rettangoli… ora che mi ci fai pensare anche chi leggerà questa nostra chiacchierata la leggerà dentro un rettangolo…

Sì, e non dobbiamo montarci la testa per questo. Mi sembra che la nostra epoca offra a tutti un’illusione di potere: puoi postare su Instagram la foto della torta che hai cucinato mettendoci a fianco la ricetta rivoluzionaria che hai inventato tu, ma non è detto che troverai lavoro come chef; puoi fare un’inchiesta sul tuo blog o avviare una campagna sul tuo profilo Facebook denunciando un abuso o uno scandalo politico, ma non per questo diventerai il nuovo Saviano e nemmeno ti chiameranno a collaborare con un giornale, anzi, forse la tua inchiesta non la noterà nessuno. Il brevetto del geco è una storia che fa i conti con le conseguenze di queste opportunità: da un lato ti motivano, ti responsabilizzano, ti spingono a intraprendere iniziative individuali senza dover chiedere il permesso ai mediatori, dall’altro innescano aspettative un po’ megalomani.

copertina geco

 

Altro pilastro del libro è quello della nuova religiosità. Nel tuo caso c’è questo “ordine” di Cristiani Sovversivi, cui la vicenda fa in un certo senso da prequel. Una cosa che mi colpisce è il fatto che la loro caratteristica è l’azione, grande o piccola, anche individuale o di piccoli nuclei. Trovo questa intuizione pienamente in linea con una tendenza all’individualismo spirituale che è un po’ tipico di molte discipline new age e similia, che in un certo senso offrono rifugio allo smarrimento della contemporaneità, ma lo fanno con metodi ben compatibili con le strutture tardocapitalistiche della nostra società. Che ne pensi?

Sono d’accordo, il tema del libro è l’azione, la messa in atto: come fare oggi a prendere l’iniziativa? Come essere veramente incisivi? Il gruppo di artisti del Brevetto del geco sceglie di scavalcare i mediatori e organizzare da sé una mostra. E i neoconvertiti Adele e Ottavio fondano i Cristiani Sovversivi, perché prendono sul serio Gesù Cristo, non lo vogliono adattare ai loro comodi. Invece la spiritualità attuale di cui parli è una forma ammorbidita di religione: fa parte del comfort universale, l’arma principale del sistema economico che ha rammollito quasi tutti (una situazione che l’antropologo Stefano Boni ha descritto nel suo Homo comfort. Il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze). Secondo me il cristianesimo o è sovversivo, o non è cristianesimo. Intendo dire che se i cristiani, e in particolare i cattolici, mettessero in pratica veramente la loro fede, salterebbe in aria tutto: capitalismo, leggi in vigore, organizzazione della vita.

Prova a fare un esempio pratico.

Be’, vale sempre l’esempio classico dell’aborto: per un cattolico, è omicidio, non c’è discussione che tenga. Quindi l’aborto legalizzato è una strage di Stato, per un cattolico è come se ci fosse lo sterminio degli ebrei sotto casa, adesso. I cattolici hanno scelto altri modi per intervenire, dietro le quinte, più tattici, istituzionalizzati, possono contare sulla Chiesa e i suoi poteri di infiltrazione. Ma se seguissero davvero l’esempio di Francesco d’Assisi, che tra l’altro è il nome che si è scelto il Papa… Noi discutiamo di fondamentalismo islamico, ma anche la religione cattolica, se fosse praticata con coerenza, sarebbe fondamentalista, radicale, intrinsecamente sovversiva, e invece si è infiacchita in una versione di comodo, che non è più religione, ma spiritualità indossata su misura, alla pari con le spiritualità new age di cui parli. Nel mio romanzo ho cercato di raccontare con grande rispetto e immedesimazione queste motivazioni, chiedendomi se non potrebbero far parte di un sommovimento storico di rigenerazione positiva. Ho immaginato che piega potrebbe prendere il presente.

Il geco del titolo riesce a stare appeso con le zampe sfruttando un meccanismo fisico che l’uomo ha potuto conoscere solo tra l’800 e il ’900 con lo scienziato Van Der Wals. Non male come modalità per accedere al dubbio, eh?

La capacità del geco di sfruttare le forze intermolecolari deboli per attaccarsi alle pareti è stata scoperta pochi anni fa. Tanto è vero che Italo Calvino, in quelle bellissime pagine sul geco che stanno in Palomar, parlava ancora di “ventose”, perché lo scriveva negli anni Ottanta, non poteva saperlo. Nel mio romanzo, Adele assiste a questo prodigio naturale, vuole saperne di più e diventa creazionista. È il primo passo della sua conversione.

Forse a un lettore non veneziano o che non ha molta frequentazione con le cose bizzarre, il “cronovisore” di cui parli nel libro (sebbene tu tenga a precisare che è una vicenda vera) potrà sembrare un’invenzione. Chi magari non è più giovanissimo invece potrebbe ricordare questa incredibile storia legata a Padre Pellegrino Ernetti, che insegnava al Conservatorio quando io ero bambino…

Stava nell’isola di San Giorgio, in convento, di fronte a San Marco. Era musicologo, esorcista e studioso di scienza: sosteneva di avere collaborato con i più grandi fisici del suo tempo, italiani e giapponesi, per costruire un dispositivo che captasse le onde degli avvenimenti del passato, residui elettromagnetici fluttuanti. Una specie di televisore, per sintonizzarsi sui grandi avvenimenti storici: l’uccisione di Cesare, la passione e morte di Gesù Cristo… Incautamente, per fornirne le prove mise in circolazione dei versi in latino arcaico: diceva di avere recuperato il frammento di una tragedia perduta di Ennio, e diede ai giornali anche una foto con il vero volto di Gesù; tutte cose che aveva intercettato grazie al cronovisore.

cronovisore

Sai che il cronovisore fa parte di quelle storie di complotti e fenomeni mirabolanti che con un amico, da ragazzi, avevamo soprannominato “i misteri truzzi”?

Eh certo… Truzzissimi! I latinisti non ci misero molto a dimostrare che quei versi non potevano essere autentici; gli storici dell’arte riconobbero in quella foto un crocifisso ligneo che stava in una chiesa vicino a Todi… Sì, tutto questo, qualche decennio fa, avveniva a Venezia! Nella stessa città di Tintoretto e Tiepolo. Nella città che ha inventato la Biennale d’arte e del cinema, il ricettacolo delle immagini che saltano al di là di sé stesse… Nel mio romanzo, ogni opera d’arte diventa una specie di cronovisore, il dispositivo che i Cristiani Sovversivi vogliono trovare per poter vedere che cosa ha veramente fatto e detto Gesù, integrando i Vangeli e rifondando la fede.

La Venezia di oggi sembra a volte incapace di esprimere uno “scarto” di follia, magia come quello di un “cronovisore”, ma se lo avessimo oggi e lo usassimo per vedere in che momento si è rotto qualcosa di importante, specie a livello culturale, dove lo punteresti?

Lo punterei a fine Seicento e inizio Settecento, quando Venezia perde la sua forza mercantile e per sopravvivere economicamente si inventa la società degli spettacoli: per la prima volta in Occidente apre teatri d’opera musicale in cui si paga un biglietto, e intanto diffonde la moda del caffè, attira aristocratici stranieri disposti a dilapidare patrimoni nell’organizzazione di feste, gioco d’azzardo e prostituzione garantendogli l’anonimato con il mascheramento del Carnevale… Eccetera. Lì è nato qualcosa che dura ancora oggi.

Anche Milano, che è una città cui sei molto legato e che è presente nel libro, sembra – nell’incognita della prossima tornata elettorale – muoversi con una certa incertezza, tra spinte interessanti e inquietudini mai sopite. Che idea ti sei fatto, specie a livello culturale, del dopo Expo?

Mi sono fatto due idee. La prima riguarda la cultura materiale, antropologica: ha trionfato il cibo, come dappertutto. Si è verificata la profezia di Guido Ceronetti, che, negli anni Ottanta, in tempi di Aids, prevedeva che la reale incidenza sociale dell’epidemia si sarebbe misurata dalla proliferazione di ristoranti, in un passaggio dalla Lussuria alla Gola. L’Aids per fortuna non ha attecchito, ma in compenso è vero che il desiderio (che sorge inatteso, scompagina i rapporti di potere e comporta ansia, pazienza, messa in gioco di sé, timore di essere rifiutati) ha preferito trasformarsi nel più comodo appetito, che ha i suoi tempi regolari, ricorrenti, rassicuranti, e può essere soddisfatto rapidamente e con facilità.

Anche la seconda idea è altrettanto sconsolata?

No. Milano mi dà anche un’idea di metamorfosi, di vitalità, non solo urbana e architettonica, come nessun’altra città italiana. Non abito più lì, e quindi non posso giudicare la politica culturale dell’amministrazione comunale, ma per esempio in questi giorni ho visitato la gigantesca Fondazione Prada e la lillipuziana Edicola Radetzky sulla Darsena, restaurata da un gruppo di artisti, che verrà destinata a microinstallazioni di opere. Ovviamente la mia affinità e simpatia va a quest’ultima. Ma Milano ti dà l’idea di una città dove l’azione calata dall’alto e quella autoorganizzata dal basso facciano entrambe la loro parte, e che ciascuna, dal suo punto di vista, abbia un senso e valga la pena.

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Un altro ambito in cui lavori con continuità è il teatro. Ci aggiorni su quello che stai facendo?

Il Teatro Stabile del Veneto mi ha commissionato un testo per le scuole. Così ho scritto I maggiorenni. Mette in scena l’angoscia dell’ultimo anno delle superiori, quando devi scegliere che cosa fare dopo. La regia è di Giorgio Sangati, con Andrea Bellacicco, Sara Favero, Riccardo Gamba, Lorenza Lombardi. Recitano di mattina, davanti alle scolaresche: una situazione che di solito per i teatranti equivale all’inferno.

Le matinée! Una parola che al solo pronunciarla suscita il terrore in attori e organizzatori. Con gli studenti che fanno un macello, ridono, commentano al buio, quando va bene si limitano a chattare su WhatsApp…

E invece in questo caso il pubblico di studenti ammutolisce davanti a una situazione che li riguarda, e ride di gusto, e accusa il colpo di una storia dura; alla fine si fermano a parlare di scelte di vita, del futuro che li aspetta: il futuro concreto, immediato, dopo gli esami di maturità; c’è chi ha famiglie benestanti, chi no, chi dovrà smettere di studiare, chi andrà all’estero. I maggiorenni suscita reazioni forti, discussioni, i ragazzi si sentono coinvolti. Insomma, per una volta ho avuto la sensazione di fare qualcosa che riguarda davvero le persone, le tocca: succede raramente nel teatro italiano contemporaneo, che è si è in gran parte estetizzato.

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Stai lavorando a nuovi testi per la scena?

Per carità! In questo periodo preferisco scrivere romanzi. Il teatro è da sempre una mia passione, ho scritto quindici testi, cominciando all’inizio degli anni Novanta, prima dell’esordio come romanziere. Ma è troppo macchinoso riuscire a portate in scena qualcosa! Troppe energie sprecate, da parte di tutti, soprattutto le povere compagnie, e per cosa? Risultati troppo spesso vicini allo zero. Al sistema teatrale italiano, o meglio, a quella parte che dovrebbe avere ambizioni artistiche (non parlo dei teatroni commerciali), non interessano i testi nuovi, per un verminaio di motivi che meriterebbero dieci pagine di risposte.

Mi sa che dieci pagine non le abbiamo a disposizione, ma se ti va di tentare di riassumerli…

In sintesi: c’è una persistenza dell’ormai datata e manieristica estetica postdrammatica, dello spettacolo come pura epifania performativa, che si ammanta in una retorica dell’enigma (tutte cose che pure, come spettatore, ho amato tantissimo); i poteri sono in mano ai mediatori e selezionatori che supportano gruppi di dubbio valore, per offrirli a minuscole élite di pubblico, sventolate come grossi successi; circola ancora l’idea caricaturale e fasulla che il drammaturgo sia una specie di tiranno intrattabile, narciso e autistico, che sarebbe incapace di mettersi al servizio degli altri artisti della scena. Ma i fatti parlano da sé: l’editoria e il romanzo, che invece danno fiducia agli autori e ascoltano anche le ragioni e i gusti del pubblico, sono una parte viva e incisiva della società; invece il teatro che vorrebbe essere innovativo e artisticamente ambizioso (così come la poesia), e che è in mano a una cerchia di mediatori con poteri esclusivi di selezione e produzione, è una nicchia ammuffita di esercizi di stile registici.

In realtà, se posso, l’anno scorso c’è stato il trionfo di un testo…

Infatti! Il caso di LehmanTrilogy è una benefica eccezione in questo paesaggio. Ho fatto un gran tifo per Stefano Massini, sono felice di com’è andata, spero che il suo successo inverta la rotta: ma ci sono voluti la regia di un mostro sacro, un kolossal con una dozzina di assi in scena e un testo che di fatto è un romanzo in terza persona, senza personaggi che dicono “io”, ma con dei verbiferi, dei portaparola che oggettivano il testo. Per convincere la critica pseudocolta, quella che ha orrore della drammaturgia e dei personaggi e delle parole dirette, il geniale Massini – che ha scritto un testo allegro, colorito, con figure semplici, alla Bohumil Hrabal – ha strategicamente pagato un pedaggio al manierismo cervellotico dell’estetica teatrale egemone. È stato grandissimo, li ha infinocchiati per bene!

Tu che frequenti quando puoi i teatri, come vedi la situazione post-riforma?

Non lavoro dentro un teatro, quindi non posso valutare gli effetti della riforma nella pratica. In generale, mi sembra semplicemente che all’origine della nuova legge ci sia stata la scelta politica di tagliare i fondi. Tutto il resto è venuto di conseguenza, è inutile fare tante chiacchiere. La pozzanghera si prosciuga sempre di più e i pesci superstiti boccheggiano nella melma.

Volevo chiudere questa nostra chiacchierata tornando al tuo nuovo romanzo per una breve riflessione su un momento che è probabilmente secondario, ma che mi ha colpito molto, quello in cui uno dei protagonisti, Federico, incontra a una festa una donna “irricordabile”, i cui tratti non si imprimono nella memoria di chi la conosce. Volevo chiederti come nasce questa figura, così smaccatamente antitetica rispetto alla pretesa indimenticabilità cui aspirano sempre i personaggi.

Nasce nell’epoca della vetrina, della “vetrinizzazione sociale”, come ha notato il sociologo Vanni Codeluppi; che, di conseguenza, è anche l’epoca dell’anonimato, del retrobottega, dietro le quinte, che i media pubblici e privati tendono a svelare, a stanare in tutti i modi con i vari backstage, making of, reality, documentari, biopic, gossip, inchieste, telecamere di sorveglianza, smartphone: come se fosse intollerabile che qualcosa si muova fuori dagli obiettivi. L’azione sociale sta a cavallo fra celebrità e carboneria, fra testimonial della beneficenza e attivisti sconosciuti, fra Bono Vox e i missionari. La soglia fra visibilità e invisibilità… Le cose che esistono anche se non si vedono. La vita che va avanti a riflettori spenti. Le persone che aspirano alla massima esposizione, e quelle che si trovano benissimo sullo sfondo, fuori dell’inquadratura…

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Vuoi provare a convincermi che l’invisibilità sia il luogo più reale, più autentico, dove risiede la vita vera?

Non saprei. Anche l’invisibilità è ambivalente. È un bivio, ti propone un’alternativa: è un modo di essere ipercontemporanei, sfruttando al massimo le dotazioni tecnologiche di oggi e le relazioni che innescano; oppure, all’opposto, è un modo per essere inattuali, illudendosi di rifiutare la contemporaneità (cioè l’organizzazione generale della vita, le facilitazioni, le soluzioni pronte per tutti; in una parola: il conformismo), per costruirsi un proprio tempo appartato, a lato dell’“oggi” così com’è descritto (e prescritto) dai media. Insomma, da una parte Anonymous, dall’altra quelli che non hanno Facebook e nemmeno la mail o il telefonino. Due modi di essere invisibili che sono anche due modi di ostentare invisibilità: infatti la maschera di Anonymous è visibilissima e loro stessi hanno bisogno di comparire di frequente nei loro video per rivendicare ciò che fanno; e d’altro lato chi non è in rete tende a dirlo in giro e a vantarsene…

Quel tuo personaggio mi ha colpito anche perché tanti anni fa avevo iniziato a scrivere un racconto su una coppia di agenti segreti che dovevano mettere alla prova un ignaro e potenziale nuovo “agente segreto” e la qualità di quest’ultimo era appunto quella di avere tratti irricordabili…

Il mio nasce da uno spunto reale. Credo sia successo almeno venticinque anni fa, forse anche di più. Ero a Venezia, in vaporetto. Una ragazza mi saluta. Non mi ricordavo di averla già conosciuta, è stata lei a dirmi dove e quando ci eravamo presentati. Mi sono sentito un cafone, le ho chiesto scusa. Ma lei mi ha dato una risposta indelebile: “Oh, non preoccuparti; io passo inosservata”. Non era ironica, né mesta, né risentita. Lo diceva come un dato di fatto. Così quella ragazza ha depositato qualcosa di indimenticabile in me che è tornato fuori un quarto di secolo dopo, in questo libro. Però non chiedermi come si chiamava, né che faccia avesse: non me lo ricordo!

Perfetto!

TAG: arte, Einaudi, geco, intervista, libri, milano, religione, Romanzo, teatro, tiziano scarpa, venezia
CAT: Letteratura

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