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Letteratura

Il muro che arrivava giù fino al mare

di Marco Bennici
26 Novembre 2017

Il muro arrivava fino al mare, proprio giù fino al mare. Lei lo stava costeggiando, sospesa in quella atmosfera delle cose quando ancora non ci si crede, e lei non credeva che potesse esistere davvero un muro come quello, sdrucito, consunto, raffazzonato, e umile, come quello. Era tutto lì, che si svolgeva, sulla sua destra. Poco più alto di lei, che non sapeva il punto esatto in cui quel muro aveva inizio, quello in cui cominciava, quello dove era stata posta la prima pietra, né quando essa fosse stata messa lì. I suoi piedi poggiavano su un sentiero piccolo, di ghiaia finemente minuta. Sulla sinistra aveva un’immensa distesa d’erba che dava a quel paesaggio un che di sconfinato, ad ogni passo era come se tutto quello spazio che lei stava attraversando le stesse scorrendo sotto, come fosse un tapis roulant. Nel muro, che sembrava, a prima vista, fatto di tufo, osservò alcuni piccoli fori regolari che sembravano nicchie, antri dentro cui i gabbiani venivano a rifugiarsi, proprio come quell’uccello davanti a cui si fermò a chiedere se era giusta la direzione verso cui stava andando, se quella strada, quel piccolo cunicolo di ciottoli su cui muoveva i suoi piedi, arrivava davvero fino al faro, oppure se l’avrebbe condotta da tutta un’altra parte. Alla sua sinistra sembrava che si potesse andare ovunque, che ogni direzione fosse praticabile, e che tutto fosse effettivamente sormontabile. Il cielo faceva da cornice, intarsiava tutto il resto, ne apriva la prospettiva, rendendo quel piccolo vialetto di piccoli sassi bianchi più ampio, e quella strada, da fare fino al mare, unica ed essenziale. Il gabbiano, alla domanda che lei gli fece, torse il becco dall’altra parte: andando diritto, seguendo da quel lato, sarebbe arrivata nel posto che stava cercando. Fosse stato notte la luce del faro sarebbe stata evidente, volteggiando nel cielo l’avrebbe chiamata, le avrebbe detto che era proprio lì, ma in quella grande cupola del giorno quella luce non serviva. Se la sarebbe mangiata  quella stella più grande che illumina tutto il firmamento, e che in alcune giornate come quella sembrava illuminare tutto ancora di più. Lei doveva solo continuare, andando avanti, il muro sulla destra avrebbe continuato a srotolarsi alle sue spalle, mentre dall’altra parte quel mare verde di erba avrebbe continuato regolarmente a rapirle l’occhio, a portarla da un’altra parte, perché lei sentiva da una parte che quel muro sulla destra le stava stretto, e che da esso poteva derivare quasi un senso di oppressione, e che avrebbe voluto deviare via dal selciato, ma sapeva anche che se voleva arrivare al faro in tempo sarebbero dovuta andare diritta esattamente come stava facendo. Si mise allora a contare i passi, e ad ascoltare il rumore che i piedi facevano su quella ghiaia, lo sfrigolare che producevano, e lei sentì di essere la lieve entità del suo camminare spedita in avanti e nello stesso tempo quel gabbiano che le volava sopra, e che le faceva da guida, e che poteva guardarsi intorno a 360 gradi. Lei era tutto, e quando sentì di essersi alzata leggermente in volo, fu come quando uno si allaccia le stringhe, e poi, quando sente che i piedi vanno davvero, spinge solo più sicuro.

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