“Il superlativo di amare” – Romanzo di Sergio Garufi

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16 Novembre 2014

Gino ha la piccola mania di contare le lettere delle parole nella convinzione tutta sua che nel caso in cui la loro somma dia dei numeri primi vi si nasconda una trappola, una fregatura, un inganno. È sul limitare dei cinquant’anni e si è trasferito da poco a Roma dal paese natio di Bevagna in Umbria. Uomo marginale, vive ancora a questa età di piccoli impieghi nel mondo sottopagato e precario dell’editoria e delle produzioni televisive. È stato ingaggiato da un editore per la traduzione del carteggio dello scrittore argentino Julio Cortázar e da una emittente per una trasmissione televisiva di massa. Vive da solo in compagnia del cane Tito, un protagonista a pieno titolo nel romanzo, confortato da amori occasionali con donne sposate. Ha già scritto un libro che gli ha procurato una certa fama ma non un grande reddito. Sembra in attesa del grande amore, che arriva con il nome di Stella. Questa la vita piatta e ordinaria dell’ennesimo inetto di genio della nostra letteratura. Ma ecco che alla fine un evento straordinario e davvero “romanzesco” connesso con la sua attività di scrittore sconvolgerà la sua vita fino ad allora puntellata da un grande ego e da una originale visione letteraria del mondo. Ma sarà stata veramente la letteratura la responsabile di tale evento?

Facile è costruire un universo romanzesco, non altrettanto è saperlo rendere coeso e metterlo in tensione, come sa fare con maestria e scioltezza il nostro autore. Questi i motivi della partitura del romanzo oltre alla Letteratura (Cortázar, Perec, e altri) che attraversa tutta la narrazione e ne è un po’ il basso continuo: il rapporto con il paese natale, Bevagna (segnaliamo l’entrata nell’Atlante letterario italiano di questa contrada umbra), il cane Tito (nel mio mondo i cani sono quei pretesti per le non-notizie del TG2, adesso scopro che possono avere una loro dignità letteraria e addirittura segnare il coup de théâtre della trama), la mamma anziana, i ricordi di infanzia, i soldi che mancano e la condizione di spiantato, il tabagismo, il senso di Gino per il sesso (zona Philip Roth), gli studi televisivi e la letteratura (zona Walter Siti), Miss Gaige: il tutto sotto il bel titolo che tange la zona Moccia, forse sbeffeggiandola pure, dimostrando che si può scrivere di sesso-amore a Roma e fare dell’ottima letteratura.

Tutto ciò costituisce il materiale grezzo del romanzo che abbiamo tra le mani e che Garufi orchestra con sapienza e grande capacità di intrattenimento. Quando infatti si riesce a controllare le scene con molti personaggi, come le cene – ove non succede niente, nel senso che la trama non avanza e bisogna saper lavorare di pennello, di colore, di appunti visivi, di svelti dialoghi, brevi osservazioni, battute che virano alla massima-, vuol dire che si è buoni padroni della macchina narrativa. Le scene corali sono il banco di prova del prosatore. Qui i dialoghi sciolti, eleganti, ariosi e con una allure di svagata conversazione colta, sono sempre ben fatti. La scelta delle parole per chi ha questa abitudine bislacca e originale di contarne le lettere e di trarre le proprie deduzioni non può che essere oculata e costituire un item narrativo ricorrente, di cui l’autore non abusa, che stuzzica il lettore. Inoltre il genietto caustico dell’emarginato sociale celebra le sue vendette verso certi scrittorelli di successo, uno tra questi è il tipico opportunista che infesta lo scenario delle patrie lettere: quello che si fa portavoce della vita precaria dei “lavoratori della conoscenza” ma è molto svelto a trovare posti di sottogoverno e a risolvere innanzi tutto l’equazione della propria esistenza. Verso simili soggetti è bello poter assestare dei micidiali colpi: il romanzo può diventare il luogo delle vendette personali; già fatto si dirà, si chiama “Inferno” e Dante ne ha la primogenitura, ma anche quando, come qui, tale procedura viene adottata in scala ridotta e al momento giusto non perde il suo scopo risarcitorio e catartico nell’invocare quell’equilibrio tra meriti e destino che tutti vorremmo fosse il segno della vita autentica, della vita giusta, della vita vera.

Come esiste una produzione di merci a mezzo di merci così le narrazioni di Garufi sono produzioni di letteratura a mezzo di letteratura. Non ci si aspetti una narrazione che attinga alla sua fonte primigenia, la vita, come le merci alla loro, la natura. Prima di essere uno scrittore (un artista con una propria robusta visione del mondo) o un narratore (un tecnico di ordigni narrativi) Garufi è innanzi tutto un letterato. A prima vista potrebbe sembrare un limite, e forse per alcuni lo è: ogni citazione di un autore, di un libro, di un quadro, che nella scrittura di Garufi abbondano – l’aggettivazione “magrittiano” per il cielo di Bruxelles l’avrei francamente evitata – potrebbe suggerire un certo effetto di Midcult o un effetto imposto, l’indicazione ossia di un mondo estetico alto di gamma e gratificante per il lettore “promosso” nell’empireo della letteratura quintessenziale – effetto che dovrebbe essere il compito primario, a dire il vero, del proprio libro che si sta scrivendo. Ma Garufi sfugge a questa obiezione: per prima perché nel nostro mondo contraffatto e carico di oltre tre mila anni di civiltà letteraria, l’estetica di secondo grado può degnamente sostituire un’emozione primaria (e l’homo fictus vale in noi tanto quanto l’homo naturalis), e poi perché Garufi gioca deliberatamente con il mondo n° 2 della letteratura incorporato nel romanzo che stiamo leggendo, allo scopo di creare un effetto “raddoppio” o un sapiente assedio del lettore, considerato che l’approntamento di quella trappola narrativa che è la mera trama sembra essere la sua ultima preoccupazione (vivaddio visti tutti i commissari in circolazione nella nostra narrativa). E infine, questa pratica di alludere alla Biblioteca (o alla Bipliopoli come si fa qui) ci pare di grande lignaggio letterario, e, soprattutto, molto presente nella letteratura prediletta da Garufi, quella ispano-americana: in questo mondo letterario, da Cervantes a Borges, l’impazzimento per i libri è materia di vita oltre che di letteratura.

Una bella prova questa di Garufi dopo il felice esordio de Il nome giusto che conferma la sua forza di scrittore autentico e diretto nonostante la spessa coltre letteraria dietro la quale ama nascondersi. Ci attendiamo grandi cose dalla sua penna, siamo sicuri che sono in rampa di lancio.

 

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Sergio Garufi, Il superlativo di amare, Ponte alle grazie, 2014, p.320 € 16.50

TAG: Il superlativo di amare, Sergio Garufi
CAT: Letteratura

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