Italia, 2015: l’era della sfiducia pragmatica cerca ancora il suo scrittore

28 Dicembre 2015

La dicotomia Roma versus Milano andata e ritorno è ormai superata nonostante le logorate logiche politiche e giornalistiche da sempre avvezza ad una conflittualità del patetico. E si è esaurito finalmente anche quell’ambito soffocante che contraddistingueva la letteratura italiana degli anni del dopo guerra con le sue diffuse prese di posizione che potremmo definire: resistenziali, compagne e compagni, borghesi grandi e piccoli, famiglia e comune, comune e privato giù giù fino al radical ed etno chic e su su fino alle terrazze e ai suv e alle smart in doppia e tripla fila per strada. Bene, ora siamo liberi, purtroppo.

E in parte è superata anche la retorica  – pure nelle sue pieghe più deprimenti – dello scrittore di provincia o che viene dalla provincia o che si vanta di campare e scrivere di provincia o che infine è felice (solo) di stare in provincia. Quello che sembra restare è così un deserto senza dune, uno spazio infinito lastricato di ingannevoli visioni e archetipi di fallimenti letterari. Uno spazio tra il cartonesco e la slapstick comedy che fa dei nostri scrittori degli instancabili Willy Coyote all’inseguimento di quell’immaginario, di quella visione che troppo spesso si riduce nella pratica della pagina scritta in un Bip Bip imprendibile e soprattutto insopportabile. Ancora dunque all’inseguimento di The General.

Tuttavia nonostante le argute e irriverenti critiche (non prive, è proprio il caso di dire di ferocia) di Matteo Marchesini, che prima su Il Foglio e poi su IL Magazine che hanno segnato questo 2015 letterario con conseguenti polemiche e più o meno futili prese di posizione della compagnia di giro, qualcosa sembra essersi mosso. Certo Matteo Marchesini quando ha picchiato la sua clava ha picchiato duro (anche con un certo compiaciuto sarcasmo come ha fatto notare Lorenzo Alunni) e per certi versi lo ha fatto un poco pretestuosamente, ma sempre con eleganza, cosa evidentemente di cui ringraziare, soprattutto quando come avviene di questi tempi, lo stile può essere tutto o quasi.

E picchiando con forza sulla testa spigolosa e puntuta dei nostri autori patrii l’effetto più interessante come avviene in questi casi è verificare dove vanno a finire le schegge e chi vanno a ferire. Se infatti l’obiettivo è spesso scontato, il contesto che si genera diviene la cosa più interessante, lo sguardo che ne deriva dopo le botte è così rivelatore di un nuovo panorama e anche di nuove impreviste relazioni. Si sa dopo le botte si diventa sempre amici.

Il 2015 è stato segnato dal trionfo al premio Strega di Nicola Lagioia con La ferocia. Trionfo praticato da Mondadori via Einaudi all’interno di quel che resta degli amici del circolo letterario italiano (il circolo è svuotato, ma gli amici attorno sono ancora tanti, insomma il buffet è ancora decisamente apprezzabile). Nicola Lagioia non si scopre certo nel 2015 e nemmeno viene consacrato oggi; la vittoria al premio Strega è solo un piccolo avanzamento, comunque privo di rilevanza nella società italiana che denota per lo meno un passaggio di consegne generazionale. Tuttavia tutte queste sono considerazioni  (pure quanto impure) prive di rilevanza letteraria.

Quindi in un’epoca in qui la figura intellettuale (oltre che dell’intellettuale tout court) è totalmente screditata cosa resta della vittoria al Premio Strega di Nicola Lagioia? In sostanza quasi nulla e vincere sui ruderi di un monumento a lungo disprezzato non credo che aggiunga molto alle qualità dell’autore barese. Quello che forse viene diciamo così certificato è il tentativo di ricostruzione di un ruolo: da ogni rovina nasce sempre un postmoderno del resto. Non credo che Nicola Lagioia abbia le stigmate di un autore letterario, ma ha invece la volontà e la curiosità di un antropologo sociale e quindi la qualità profonda e la determinazione di provare (in più modi) a capire il proprio tempo. È come se le caratteristiche che hanno segnato e distinto la letteratura dei padri del Novecento italiano fossero oggi esplicitate direttamente senza passare dalla letteratura se non come mezzo strumentale. Sembra che l’urgenza e la necessità sociale di questi tempi obblighi i nostri autori a rifuggire la pazienza del ruolo o meglio ad esploderlo per inseguire obbligatoriamente una curiosità direttamente sul campo dell’agire intellettuale.

Con Nicola Lagioia s’intravedono un gruppo di autori come Christian Raimo (Tranquillo prof, la richiamo io, Einaudi), Alessandro Leogrande (La frontiera, Feltrinelli), l’esordiente Ginevra Lamberti (La questione più che altro, Nottetempo), Michela Murgia (Chirù, Einaudi) e anche lo stesso Emanuele Trevi (Il popolo di legno, Einaudi). Autori (qui ne citiamo solo alcuni) i cui libri ottengono reale completamento di senso solo attraverso lo sviluppo parallelo di un ecosistema intellettuale in grado di elaborare più strumenti e azioni d’intervento sociale. Ciò non significa una visione politica o per l’appunto sociale anzi in alcuni di loro l’amato ombelico è sempre ben presente, semplicemente s’intravede per quanto discutibile e detestabile (come adorabile ed entusiasmante) il tentativo di superare le rovine per farne una cosa nuova. Una ricostruzione del lavoro intellettuale che ha tutto il fascino e tutti i limiti delle pietre vecchie.

Di intreccio in intreccio non mancano i tentativi più spudorati d’intervento puramente letterario che come tutti gli approcci arrischiati vivono spesso più di fallimenti e di ridicolo che di resa efficace. Anzi dimentichiamoci l’efficacia e anche il piacere, ma lasciamo perdere anche l’impegno e l’aulica raffinatezza linquistica. Qui si parla di tentativi alcuni riusciti altri meno che ancora una volta sembrano ostinatamente ancorati al piacere di un conservatorismo che si priva a priori di una qualche seppur minima riflessione egemonica. La cultura che prima si finge sistemica e non è altro che cortigiana qui si crede salottiera, ma non arriva nemmeno al tinello degli amici. Anzi spesso gli amici hanno sguardi in tralice.

Due i lavori, per molti aspetti uno opposto all’altro che ben definiscono un discorso sperimentale (o almeno ci provano), Lo Scuru (Tunue) di Orazio Labbate e Arrenditi Dorothy! (L’orma editore) di Marilena Renda. Se il primo sconta in maniera eccessiva la passione dell’esercizio, il discorso illustrato di Marilena Renda colpisce per divertimento e intelligenza. Non dico che sia una narrazione intelligente e divertente, non sono queste le sue ambizioni, ma costruisce una relazione di curiosità con il lettore. Ostile è invece il lirismo di Cella (Marsilio) di Gilda Policastro vera e propria costruttrice di quinte teatrali sul corpo dei suoi protagonisti/attori. Non azioni, ma atteggiamenti, non intenzioni ma rigurgiti fisici. Un’ostilità che permea le sue pagine con intrigante fastidio e deprimente ottusità. Gilda Pollastro costeggia l’aura del sarcasmo e seduce con l’incapacità di uno sguardo teso. I suoi testi tradiscono e deludono perché é la delusione stessa il terreno del suo confronto: seduzione e delusione quali mezzi per anticipare ed eludere qualsiasi sfida o confronto.

In direzione comoda e contraria (ma mai contro vento) veleggiano invece gli adepti di uno storytelling in fuga perenne da ogni forma di realtà, ma affascinati e compressi in un realismo moralista fatto per amore di ricostruzione e di ricontestualizzazione. Antonio Scurati con Il tempo migliore della nostra vita (Bompiani) e Marco Missiroli con Atti osceni in luogo privato (Feltrinelli) sono probabilmente i più luminosi rappresentanti di una narrazione ravvicinata del terzo tipo che mischia storia a vita privata in una rielaborazione domestica di un discorso postmoderno che in Italia sembra avere ancora vita lunga proprio perché compresso e frainteso.

La lettura dei lavori di Missiroli e di Scurati ancora una volta sembra rivelare l’incapacità di uccidere pienamente il padre, con il risultato di una narrazione che al netto degli stereotipi e di qualche caduta di linguaggio pare non andare oltre ad un compito strettamente didascalico e pedagogico. Una limitatezza che colpisce ancor di più viste le qualità dei due autori e che evidentemente supera i confini della scrittura, scontando un contesto e un clima difficile da respirare quanto da interpretare.

Non serve a nulla sia chiaro l’accetta del giudizio come non servono inutili giustificazioni, ma ha senso provare ad interpretare quello spazio relazionale che coinvolge autore e lettore in un campo che in Italia per troppo tempo è stato invaso da una memoria ideologicamente inscalfibile e da una conseguente epica di cartapesta oggi inutile e su cui è difficile e probabilmente impossibile ricostruire un regime linguistico degno. I limiti di Missiroli e di Scurati (almeno quelli espressi in questi due ultimi lavori) sono i medesimi che colpiscono come un virus più o meno evidente autori come Giorgio Fontana, Nadia Terranova, Niccolò Ammaniti e Paola Soriga. Un virus (per ora non letale) che deforma fino a ridurre l’intervento romanzesco in una superfetazione che tuttavia non è lontana da una realtà quotidiana, in cui l’esistente è obbligato a confrontarsi in continuazione con un passato e un futuro sempre intercambiabili in nome di un presente sempre più impalpabile. In altri termini questi autori forse non hanno la qualità e la destrezza di un passo doppio, ma la temperatura la sanno misurare, siamo insomma nell’età della febbre (Minimum Fax) come ricorda la fortunata e bella antologia a cura di Alessandro Gazoia e Christian Raimo. Forse non c’è salvezza, ma di certo molto sacrificio è in atto.

L’età della febbre è parallela e in parte opposta all’antologia di IL curata da Christian Rocca dal titolo Non si può tornare indietro (Marsilio). Alcuni autori ritornano in un incrocio che chiarisce sia un percorso generazionale sia il senso di una definizione di un territorio ancora in buona parte inesplorato. Ed entrambi i volumi infatti, più che dettare lo stato di fatto, provano ad interpretare, svincolati dalle solite logiche di quartiere, il tempo che ci aspetta inteso come liberato dal bene e dal male passati e soprattutto elidendo un’interpretazione che sempre dal passato di solito proveniva imponendo logiche e dinamiche sempre uguali a se stesse.

Il panorama si presenta così tra sbalzi d’umore e perdita di rendite di posizione come un ostile terreno, dentro al quale non si sa fino a che punto valga la pena giocarsi la partita e in cui non a caso i maestri appaiono il più delle volte degli allenatori a bordo campo, come Antonio Moresco o Giulio Mozzi. Oppure degli esclusivi eremiti o esuli come Aldo Busi e Gianni Celati: maestri senza scuola e senza alunni, ma con qualche discepolo più o meno fanatico. Padri assenti di figli ripetenti che hanno spesso assunto un ruolo di tracciatura, più che di guida. Autori diversissimi come Giuseppe Genna, Tiziano Scarpa, Michele Mari e Giorgio Pressburger hanno negli anni infatti sviluppato un discorso che oggi è in parte raccolto dai più giovani in una relazione parallela  quanto mai rara che vede coinvolti lettori e autori in reciproca attivazione. Troppo poco? In realtà no. Il panorama è di grande vivacità e i giudizi vivono una sospensione non per quieto vivere (o non solo), ma di desiderio.

Il desiderio che le qualità di molti dei nostri autori finalmente battano il colpo esiste ed è reale perché sotto il peso di una narrativa schiantata c’è ben più che una brace accesa.  La necessità è il racconto e la sua lingua contestualmente al superamento di una letteratura che fino ad oggi ha puntellato e tenuto in sesto un discorso senza però mai saperlo proiettare oltre i confini di un gioco che seppur serio è sempre rimasto un gioco anche politicamente parlando (in parte Wu Ming sono stati questo).

In tal senso quanto sapranno proporre nei prossimi anni Vincenzo Latronico, Andrea Gentile, Emmanuela Carbè, Rossella Milone, Paolo Sortino, Francesco Pacifico definirà la possibile ossatura di un discorso letterario innovativo e pregnante. Attorno a questi autori e a qualcun altro di loro è possibile riporre una felliniana sfiducia e quindi una contestuale certezza che ci sia lo spazio di un’imprevedibile riuscita. Il nostro è il tempo della sfiducia che supera il nichilismo in pragmatismo, e la letteratura italiana potrebbe finalmente raccontarcelo.

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CAT: Letteratura

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