“Le perfezioni”: intervista a Vincenzo Latronico sul suo nuovo romanzo
Un mondo perfetto, costruito scatto dopo scatto, con la giusta angolazione, la luce adatta, modificata ad arte. Vite da osservare e da replicare, da invidiare dal divano di casa e di cui immaginare i confini sperando un giorno di poterli varcare. Qualcosa però si nasconde sotto la patina luminosa di queste esistenze filtrate da Instagram: una latente insoddisfazione, l’esigenza costante di aderire a un modello, di rappresentarlo al meglio, interpretando un ruolo che ci si è trovati a vestire quasi per caso, con grande slancio iniziale, ma altrettanta fatica nel corso del tempo.
“Le perfezioni”, nuovo romanzo di Vincenzo Latronico, edito Bompiani, racconta la parabola di una generazione – quella dei millennial – giovani di belle speranze e voglia di scoperta negli anni Dieci, adulti alla ricerca di nuovi percorsi capaci di contrastare la noia che ha invaso le loro giornate.
Al centro della narrazione Anna e Tom, coppia di giovani creativi che si è trovata, quasi per gioco, a lavorare nel mondo digital e che si è trasferita a Berlino alla ricerca di nuove esperienze. La città li ha accolti con i suoi locali, il rigore dei lunghi inverni, lo spirito cosmopolita che da una parte li fa sentire altrove, in uno spazio meno provinciale, meno banale dell’Italia che hanno abbandonato, d’impulso, dall’altra – grazie alla globalizzazione – sembra quasi “casa”, con i ritmi, ovunque uguali, del popolo della rete.
Poco alla volta la città perde i suoi contorni e acquisisce quelli di un non luogo, dove tutti parlano un inglese spurio, popolano di piante tropicali i loro appartamenti, rivestiti di librerie in legno. Spazi che si guastano nel corso della giornata, perché la vita sembra essere un elemento di troppo nel quadro d’insieme, e che devono essere riordinati per corrispondere all’idea di casa che devono trasmettere. E poi il lavoro, creativo, iperconnesso, flessibile, onnipresente, apolide. Anche le relazioni, la sessualità, sembrano doversi giocare secondo un preciso copione nel quale l’ordinario non può trovare spazio, per quanto, forse, la trasgressione sia soltanto un’esigenza indotta, un gioco di società a cui occorre partecipare. Tutto, in questo mondo, si misura in termini di risposta sociale, di like sotto una foto, di commenti. Anche i viaggi, fuga necessaria ma sfiancante per Tom e Anna, sempre al lavoro e connessi, anche da una spiaggia, sembrano perdere di autenticità in un contesto in cui le vere esperienze autentiche, come quella del volontariato, risultano deludenti, frustranti.
Latronico osserva queste vite da vicino, senza esprimere un giudizio di merito, senza proporre soluzioni o visioni differenti, senza etichette.
Con una prosa essenziale, priva di dialoghi, attenta a descrivere con occhio cinematografico quegli spazi, molto più simili a set che a habitat del quotidiano, in cui si muovono i personaggi, Latronico riesce a trasmettere al lettore un senso di familiarità e di disagio, in un gioco di specchi in cui il lettore può riconoscere sé stesso, ma con quel senso di distanza che gli consente di guardare a questa storia come se fosse “altro” rispetto alla sua vita.
La scrittura emerge come l’elemento più autentico della narrazione. La parola resiste, nonostante tutto, tratteggiando una parabola dai sogni alle disillusioni che caratterizza da sempre il passaggio alla vita adulta, ma che oggi, nell’eterno replicarsi della novità, nell’estetica precaria e fluida delle vite nomadi (digitali e non), risulta deviante. Anna e Tom non vanno in crisi, non nel senso tradizionale del termine per una coppia: continuano a comunicare, a progettare, cercano di non “sedersi” nel quotidiano, ma ciò che va in crisi sono le promesse che un modello di vita “alternativa” gli aveva fatto. L’andamento del romanzo riflette questo precipitare degli eventi, da una disillusione all’altra, accelerando, nel finale, in una sequenza di mancate soluzioni esistenziali che sembrano lasciare potenzialmente aperto un rincorrersi infinito e ciclico di trasformazioni risolutive.
Abbiamo parlato di questo nuovo romanzo con l’autore in una breve intervista.
“Le perfezioni” è un romanzo che gioca su continui rimandi fra differenti media e linguaggi: scrittura, immagini, social network, musica… Tom e Anna fin dalle prime pagine si osservano e si pensano attraverso le immagini che restituiscono all’esterno. Esistono perché condividono e si formano nella condivisione, come comunità. Tutto si tiene e tutto sembra, in un certo senso, perdere di contorno e disperdersi nella comunicazione costante in cui i protagonisti sono immersi. Una comunicazione che sovrasta la vita stessa. Come nasce il desiderio di raccontare questa immersione costante nel mondo di rete, del mostrarsi quotidiano? E come hai lavorato nella costruzione di un racconto essenziale e pulito, capace però di trasmettere il sovraccarico di informazioni in cui viviamo immersi?
Ho spesso avuto la sensazione che la parte digitale delle nostre vite sia piuttosto assente dalle storie che raccontiamo. In qualche misura è ovvio: il romanzo tradizionale ha una sua inerzia e dei suoi snobismi; le persone che scrivono spesso non sono early-adopter; le tecnologie si succedono con una rapidità tale da rendere presto opachi riferimenti prima chiarissimi (i tempi editoriali non aiutano: un romanzo scritto quando impazzava il social network Clubhouse uscirebbe adesso, marzo 2022, in cui ho avuto bisogno di una ricerca su Google per ricordarmene il nome). Ma penso ci sia un ostacolo più profondo: il fine ultimo delle tecnologie digitali (l’accesso immediato alle informazioni e la comunicazione istantanea) è in contrasto con una delle dimensioni fondamentali del romanzesco, che è il mistero. Il viaggiatore smarrito; l’amore lontano; lo sconosciuto tenebroso: nulla di tutto questo esiste più (o se esiste è per un glitch). Però esistono cose – dibattiti in thread, post cancellati e screenshottati e diffusi, account fake, e via così – che sono sia difficili da raccontare che, però, molto importanti nella quotidianità di molti di noi (la mia, di sicuro). Tante delle nostre emozioni e idee, delle nostre speranze, dei nostri conflitti – i motori di molta narrativa – oggi accadono online. Per questo, per me, era importante trovare un modo di raccontarli: ci penso da parecchi anni. E appena ho letto Le cose ho capito che lo avevo trovato.
Modello esplicito di questo romanzo è Perec con “Le cose”. Quali altri modelli, letterari, cinematografici, tratti dalla serialità, ti sono stati di riferimento?
Non si tratta di un modello vero e proprio, ma diciamo che per molto tempo ho cercato un tipo di scrittura narrativa che fosse il più possibile vicina alla saggistica, osservativa, ma movimentata e abbastanza complice da non risultare neutra. Più che in Perec l’ho trovata in Sottomissione volontaria di Lena Andersson, un romanzo che mi ha davvero fatto pensare.
Per molti decenni il racconto di formazione, in particolare legato alla partenza, all’espatrio, è stato un racconto che partiva dalla provincia per arrivare al “mondo”, in un processo di scoperta ed emancipazione che portava i protagonisti a misurarsi con il diverso, l’ignoto. In questo caso, se si esclude il primo periodo Berlinese, Tom e Anna ritrovano in un contesto globale una quotidianità ordinaria, sempre uguale, replicabile a Berlino così come in qualunque altra grande città del mondo. La formazione in un certo senso si interrompe, o resta sospesa, generando insoddisfazione e bisogno di altro. Esiste ancora uno spazio per andare avanti nella ricerca di crescita? Per raccontare la scoperta di nuovi mondi?
Qui in qualche modo torna quello che dicevo prima: esiste un senso in cui i nuovi mondi da scoprire non esistono più – o meglio, sono scopribili sfoderando lo smartphone e cercando informazioni a riguardo. Per una ragione simile si è cominciato, un secolo fa, a situare nello spazio una frontiera con l’ignoto che sulla Terra sembrava via via più labile. Ora è scomparsa del tutto. Questo, ovviamente, non significa che non esistano avventure: ma che sono diverse, e che più che con l’assenza di informazioni occorre misurarsi con la loro sovrabbondanza (che è un po’ ciò di cui provo a scrivere io) o con la loro falsità (che, ad esempio, è un tema in Fake accounts, uno splendido romanzo di Lauren Oyler). In generale, trovo che il romanzo di formazione nell’ultimo periodo si sia, per così dire, introvertito, sfocando lo sguardo sul mondo esterno per concentrarsi su quello interiore dei personaggi. Se penso, chessò, a Jack Frusciante è uscito dal gruppo (il romanzo che ha segnato, in Italia, la mia generazione, o almeno me e le mie amiche e i miei amici), mi colpisce oggi quanto sia dettagliato e specifico nel situarsi in un luogo e tempo. Il grande romanzo di formazione di oggi (Normal People di Sally Rooney senza alcun dubbio) è invece profondamente generico – quasi basterebbe cambiare la toponomastica per situarlo altrove nell’occidente. Questa non è una mancanza di Rooney, anzi: ha centrato qualcosa che è successo all’esperienza dei giovani occidentali, e per farlo ha desaturato completamente i fondali. Io ho provato a fare il contrario, ma con lo stesso fine: in fondo – e questo è Perec – si potrebbe dire che il mio romanzo è quasi solo fondale.
“Le perfezioni” racconta uno spaccato generazionale, che allo stesso tempo però è anche, più in generale, una fotografia del contesto culturale in cui attualmente viviamo, fatto di gentrificazione, rassicuranti spazi omologati e “scoperte” estetiche guidate da una stessa matrice. Per chi come Tom e Anna cerca qualcosa che possa andare oltre il cliché “alternativo” in cui sono immersi, quali possono essere le risposte, le vie di fuga per uscire da una crisi che è non tanto di coppia, ma della coppia rispetto alla sua esistenza?
L’ultima sezione di Underworld, intitolata Das Kapital, inizia così: “Il capitale annulla le differenze di una cultura.” In fondo il mio romanzo si può riassumere così. Da allora il capitale ha guadagnato terreno, e le differenze (cioè le vie di fuga) continuano a sparire. C’è poco da fare, penso, se non fischiettare, che è l’unica cosa che può fare chi si getta da un aeroplano con un paracadute in fiamme.
In questo romanzo i dialoghi sono i grandi assenti. Una scelta stilistica precisa in un contesto di sovra-comunicazione?
Non proprio. Diciamo che per me era importante raccontare Anna e Tom come coppia ma non come singoli – era un modo, per dir così, per raccontare cosa distingueva un gruppo (sociale, generazionale) dal resto della società senza però entrare nel dettaglio delle distinzioni interne a quel gruppo: cioè, senza che ci fossero individui in senso stretto. E i dialoghi mi avrebbero costretto a differenziare gli individui. Va anche detto che, in generale, trovo i dialoghi difficilissimi da scrivere bene e perlopiù noiosi nei romanzi che leggo. Anche in quelli che scrivo: quindi li evito.
Un racconto come quello de “Le perfezioni” può aiutarci – a tuo parere – a guardare con maggior distacco le nostre manie sociali, le ossessioni contemporanee per certi stili di vita?
Non so se “aiutare” è la parola giusta; di certo scriverlo non mi ha fatto smettere di desiderare ciò che desidero per conformismo o imitazione o passione indotta. Però, diciamo, mi ha fatto sentire visto, che è un modo per dire meno solo.
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