Nell’era della post-verità, Tom McCarthy fonda il romanzo post-verista

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23 Dicembre 2016

(0.1
Premesso che non si dovrebbe mai fare nessuna premessa, la premessa qui è particulare: il sovrascritto torna a pubblicare recensioni dopo un silenzio più che biennale. Non che importi sottolinearlo ai miei venticinque amici: loro lo sanno già, il perché e il percome. E per conto mio potevo starmene zitto almeno un altro bel po’. Penso piuttosto ai suoi venticinque lettori: di Tom McCarthy dico, del cui libro si va a parlare; ché lo scrittore londinese è tanto apprezzato in patria quanto misconosciuto qui. Satin Island è uscito qualche giorno fa in un clamoroso silenzio; ora qualcosa si muove: contribuisco con questi appunti sparsi, buttati giù in forma parassitaria, mimetica (il libro è scritto in brevi paragrafi numerati, così:))

satin

1.1
U., protagonista e narratore di questa storia, lavora come antropologo di prestigio nel seminterrato di un’azienda. Un’azienda che in giro per il mondo vende – ad altre aziende, a governi ed enti pubblici, a se stessa – narrazione, storytelling, idee, immagini, fuffa. L’azienda vince l’appalto per un grosso progetto, lui fa ricerche per una Grande Relazione; c’è un’amica che lo chiama quando vuole scopare, c’è un amico che si ammala e muore, c’è U. che sbrocca. Fine.

All’epoca di questi fatti (fatti, seh! Se siete in cerca di quelli, meglio che smettiate di leggere subito)

1.2
L’antropologia come metafora dell’incomprensibile. Lévi-Strauss, citato a manetta, diceva che il mistero di una tribù o si riesce a penetrare completamente, e allora che barba, non c’è più sfizio; oppure non ci si capisce un cazzo, e basta. Tertium non datur. E se così è per la piccola tribù sperduta, perché per la grande tribù globale dovrebbe essere diverso?

1.3
Raccontare la realtà è raccontare la storia di uno che prova a raccontare la realtà. E fallisce. Questo, va da sé, è molto post-moderno. La cover mostra tutto quello che il libro avrebbe potuto essere, e non è; tutto quello che la Grande Relazione avrebbe dovuto essere, ed è.

satinisl.jpg

1.4
Le storie e la Storia, nei libri di McCarthy. Uomini nello spazio era ambientato nell’Europa dell’Est, all’epoca delle rivoluzioni di velluto; C tra la fine dell’Ottocento il primo dopoguerra, era di scoperte scientifiche e invenzioni tecnologiche e rivelazione archeologiche. Uomini nello spazio era un intreccio labirintico, un delta fluviale di vicende separate, ma l’una simbolo dell’altra; C era più lineare, ma quasi sfiancante nella sua precisione autoptica. E Satin Island? Qui e ora. Forse.

La chiusura dello spazio aereo era annunciata a metà pagina, a fianco del camion bomba al mercato, e con un titolo della stessa dimensione

(0.2
Avrei voluto intervistare Tom McCarthy. Ma poi mi sono reso conto che l’unica domanda che davvero mi interessava fargli era: posso iscrivermi alla INS? (International Necronautical Society, il collettivo di artisti concettuali palesemente finto – i soli membri sono i due fondatori: McCarthy e il suo amico Simon Critchley – la cui ragione sociale è “do for death what the Surrealists had done for sex“))

1.5
Eppure il libro è breve, forse il suo più breve. Ma, chi l’ha detto che si deve essere per forza lunghi per essere complessi? Breve ma denso. Eppure leggero (ora…): leggibile.

1.6
Satin Island è ambientato nel mondo reale? Sono problemi da porci. I luoghi, alcune aziende alcuni fatti storici, sono riconoscibili. Altre cose, come i nomi dei giornali, e la Società, che nel mondo del libro è un noto colosso, sembrano invenzioni. Ma essa potrebbe anche essere nascosta in bella evidenza, come the purloined letter. Insomma, siamo in un universo parallelo? O l’universo non è come crediamo di conoscerlo? Decidere quale delle due fa più paura.

Vincevamo i contratti spiegato che i social network sarebbero diventati la nuova stampa d’élite, le periferie il nuovo centro della città, e che le economie emergenti avrebbero saltato a pie’ pari l’analogico per entrare dritte nella fase postdigitale – cioè usando il futuro per conferire un bollo di verità a quegli scenari

1.7
Al centro di tutto poi, piuttosto che l’uomo, a volte sembra stare la tecnologia. Ma non nell’accelerazione distopica (esorcizziamo, esorcizziamo) alla Black Mirror. Il flusso incessante e ininfluente di notizie in cui siamo immersi, l’information overload che porta direttamente a non credere a nulla, o a credere a tutto, che è la stessa cosa. Che porta direttamente all’impero della bufala: la disinformazione elevata a sistema, che parte per fare soldi con gli ads e arriva alla vittoria di Trump. Ma tutto questo McCarthy mica lo dice, lo lascia pensare e noi, se vogliamo. Quando l’epoca della post-verità sarà finita, cioè quando la post-verità sarà la norma, quando il mondo sarà Tlön, un libro come Satin Island verrà definito realista. Fino ad allora, possiamo azzardarci a definire McCarthy il fondatore del post-verismo?

Probabilmente non c’è una singola parte della vostra vita quotidiana che il progetto non abbia, in un modo o nell’altro, toccato, penetrato, mutato;anche se probabilmente voi non lo sapete. Non che fosse un segreto. Cosa del genere non hanno bisogno di esserlo. Riescono furtivamente passare inosservate perché sono noiose.

1.8
Cercare la risposta totale, quella definitiva, onnicomprensiva. La teoria del tutto. A chi non è capitato? A noi però per sfizio; a U. per lavoro. A un certo punto gli sembra quasi di poterci arrivare: non di averla sulla punta della lingua, beninteso, ma di concepire la possibilità teorica di raggiungerla, la risposta. Solo che – momento sublime, esilarante e tragico – a quel punto si chiede: vabbè, ma quale sarebbe la domanda?

1.9
Qualche tentativo, non di Grande Relazione, di risposta definitiva, ma di illuminare almeno un tratto del paesaggio, U. lo fa pure. Sono teorie anche belle, agnizioni folgoranti, come quella che collega i paracadutisti morti a una roulette russa su scala mondiale. Solo che, piccolo particolare, sono tutte stronzate senza fondamento.

2.1
André Leroi-Gourhan, che come riporta la quarta di copertina è per la preistoria quello che Lévi-Strauss è stato per l’antropologia, dice esattamente, all’incirca, la stessa cosa: se un marziano o un archeologo del 20.000 d.C. dovesse dedurre le fondamenta del pensiero cristiano solo dai dipinti nelle chiese e dalle sculture nelle cattedrali, che capirebbe? Una religione sanguinaria, sacrifici umani, torture… La conclusione di Leroi-Gourhan è però opposta: l’oggetto è al 95% inconoscibile, ma quel restante 5% si può studiare; e soprattutto, un oggetto esiste. Per U. (per McCarthy) forse no: l’oggetto sfugge, è inconoscibile perché è inconoscibile (limite soggettivo) o forse è inconoscibile perché non è.

2.2
La stessa cosa avevo pensato dopo aver letto per la prima volta Jeff VanderMeer e McCarthy, grazie un post di Gianluca Didino che li accostava. VanderMeer (americano) pensa che la realtà esiste, anche se è difficile (o impossibile, qui non importa) da conoscere; McCarthy (europeo) mah, boh, forse, chissà…

(0.3
Questo post è stato abbozzato con una matita elettorale sulle pagine bianche provvidenzialmente lasciate alla fine del libro dall’editore italiano, Bompiani; i paragrafi sono stati poi dettati al riconoscitore automatico di uno smartphone. Anche questa è una cosa che avrebbe potuto succedere in un libro di McCarthy. (Il titolo del post poteva essere, con chiaro intento acchiappa click, All I want for Xmas is U.; Ma non preoccuparti, is not about you. Non pigliatevelo per Natale. Pigliatevelo e))

2.3
In un capitolo bellissimo, che potrebbe essere emblematico di tutto il libro, la ragazza di U. parla dei suoi giorni al G8 di Genova. Inizia con una fredda descrizione dei pestaggi alla Diaz e delle torture psicofisiche a Bolzaneto (realismo); prosegue con accadimenti solitari e inspiegabili in una villa-albergo-laboratorio ( post modernismo alla Pynchon); finisce a Torino, cioè il posto dove quel filosofo danese impazzì e abbraccio il cavallo, o viceversa (post-verismo).

La tecnica che avrei impiegato dal ora in poi per il mio lavoro per la società: reinserire teorie d’avanguardia, quasi sempre collocate sulla sinistra dello spettro politico, nella macchina aziendale. La macchina era in grado di inghiottire qualsiasi cosa, di inglobarla.

2.4
Il mio amico Younis Tawfik racconta sempre che ha imparato l’italiano per avere il piacere di leggere la Commedia in originale. Ma lui è (diventato) uno scrittore – ora scrive romanzi in uno stranissimo italiano. Il fisico Robert Oppenheimer – il fisico, non il poeta, quello che diede il suo contributo alla bombetta – volle imparare il sanscrito, lingua che non avrebbe usato per scrivere i suoi romanzi, per il solo piacere di leggere in originale la Bhagavad Gita. È strano pensarlo, e anche un po’ assurdo dirlo, che geneticamente questi due esseri viventi appartengono alla stessa specie di zio Peppino il salumiere o del mostro di Milwaukee. Queste riflessioni parantropologiche non fanno parte di Satin Island, né della Grande Relazione – anche se avrebbero potuto.

2.5
Da qualche parte ho letto: Tom McCarthy, postmoderno di ritorno. Mi fa ridere! Come se il post-modernismo fosse solo uno stile, che per un po’ è andato di moda e ora non è più trendy – come se la post-modernità fosse qualcosa che una volta iniziata può anche avere una fine. E non sia piuttosto come l’Impero Romano di Cavazzoni, che è iniziato a crollare 2000 anni fa e non la smette più, sta ancora crollando.

2.6
La leggerezza, la complessità, la leggibilità, il mistero, sono anche (stavo per dire: soprattutto) merito della traduzione, come quando per esempio fa intravedere sensi nelle lettere che compaiono e scompaiono da un’insegna – Staten Island Ferries. Anna Mioni: 90 minuti di applausi per quel seh.

(0.0
Che poi io lo so che mi fa male leggere libri come questo, che alla fine mi fanno venire il dubbio che non sia solo la realtà a non esistere, ma persino la letteratura (E poi: che altro – come dicono i salumieri – uh, la doppia parentesi, la adoro))

TAG: libri, post-verità, recensioni, Tom McCarthy
CAT: Letteratura

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