Letteratura
Perché (ri)leggere “Il giorno del giudizio” di Salvatore Satta
Toni Servillo leggerà, durante il prossimo Festival dei tacchi che si terrà dall’1 al 10 agosto a Jerza e Ulussai, in provincia di Nuoro, Il giorno del giudizio di Salvatore Satta (Nuoro, 1902 – Roma 1975). Forse la notorietà dell’attore servirà a fare uscire finalmente dalla cerchia dei lettori colti uno dei testi narrativi più imponenti, ma anche meno conosciuti, del Novecento, equiparabile al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa per ampiezza di visione e capacità di intrecciare sapientemente vicende familiari con eventi storici. George Steiner lo ha definito «uno dei capolavori della solitudine nella letteratura moderna» e gli ha dedicato un ampio articolo nel 1987 sul New Yorker con il titolo “Mille anni di solitudine” in occasione della traduzione dall’italiano all’inglese. Secondo il grande critico francese, la trasposizione «non riesce ad afferrare appieno il genio della prosa di Satta – la sua marmorea ferocia, il suo lento bruciare dentro la pietra. Il latino di Tacito e lo stile di Hobbes sono ciò che maggiormente gli si avvicina». Il romanzo era stato pubblicato postumo da Adelphi nel 1979 e l’accostamento a Tacito e Hobbes deriva, secondo Steiner, da una sensibilità nutrita con la «dura, lapidaria latinità degli storici e dei giureconsulti romani». Non a caso Satta è stato anche un insigne giurista, autore di un monumentale Commentario al Codice di procedura civile in cinque volumi. Ma non è per questo che sarà ricordato negli anni avvenire, quanto perché, a proposito del suo romanzo, scrive sempre Steiner sul New Yorker, «il lettore non se ne libererà facilmente, né avrà il desiderio di liberarsene».

I personaggi che affollano l’opera (Don Sebastiano e la moglie Donna Vincenza, il maestro Ricciotti, Pietro Catte, Prete Porcu, Gonaria, Pedduzza, Giggia, Baliodda, Dirripezza e molti altri) sono stati «evocati per liberarmi dalla mia vita senza misurare il rischio al quale mi esponevo, di rendermi eterno». L’eternità, infatti, sarebbe solo la prosecuzione dell’infelicità di cui si fa già ampia esperienza in vita. Una delle pagine più struggenti (ce ne sono tante) del Giorno del giudizio è, alla fine, quando Ludovico, il figlio di Don Sebastiano, si fidanza con Donna Celestina, ma dopo dodici anni i due si lasciano senza convolare a nozze, e «ciascuno si portò appresso come un lutto eterno la propria castità» si legge nel romanzo. Che per questo, e per mille altre ragioni che il lettore scoprirà da solo, val la pena leggere da cima a fondo.
(La foto di copertina è di Carmelo Battiato)
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