Philip Roth e il coraggio della verità
Sono molti i motivi per cui uno scrittore è grande. Con Philip Roth la società contemporanea ha perso un intellettuale acuto. E non importa se l’Accademia di Stoccolma non l’ha capito e gli ha preferito Bob Dylan per il Nobel. Capita, soprattutto ai migliori.
Uno scrittore resta nella memoria a una sola condizione: se dice la verità sull’essere umano. Altrimenti è solo uno che scrive storie.
Quando ha pubblicato L’animale morente, Roth non ha composto semplicemente una straordinaria storia d’amore e dolore, non ci ha fatto solo sentire, dentro ogni fibra, la sofferenza fisica e psicologica di Consuela Castillo, giovane, bella e condannata all’ignoto. Roth ha detto una cosa che va al di là della coerenza con il suo racconto, è una verità universale: cos’è il ridicolo? Rinunciare volontariamente alla propria libertà: ecco la definizione del ridicolo. Se la libertà ti viene strappata con la forza, superfluo dire che non sei ridicolo, se non per colui che la forza te l’ha tolta. Ma chi regala la propria libertà, chi muore dalla voglia di regalarla, entra in quel regno del ridicolo che fa venire in mente le più celebri commedie di Ionesco ed è una fonte di ispirazione in tutta la letteratura comica. Chi è libero può essere pazzo, stupido, ripugnante, infelice proprio perché è libero, ma non è ridicolo. Ha lo spessore dell’essere umano.
Siamo noi a decidere se avere lo spessore dell’essere umano o accettare di essere ridicoli. Divergere da un sistema consolidato, con le sue regole, è difficile. Ci vuole forza morale. E in una società che si è spontaneamente consegnata alla tirannide soft dell’edonismo neolaico direbbe Pasolini – diventa un’impresa quasi impossibile.
La lotta al ridicolo si combatte in un modo netto, opponendo al magma del narcisismo di massa 4.0, la capacità di restare ancorati alla dimensione umana.
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