Rileggendo Gozzano
L’abbiamo amato un po’ tutti, imbattendoci nelle sue poesie sull’antologia dell’ultimo anno di liceo. Così lontano dal roboante Carducci, dall’intenerito Pascoli, dal superbo D’Annunzio, e invece così inaspettatamente vicino alla nostra sensibilità di ansiosi e mordaci adolescenti. Arrivava lui, avvocatino piemontese consumato dalla tisi, beffardo e commosso, malinconico e ilare, sentimentale e prosastico. Con i suoi amori ancillari, l’estenuata sensualità, le signorine quasi brutte, gli eleganti caffè cittadini, le passeggiate in collina.
Ecco quindi che la riedizione de I Colloqui gozzaniani da parte dell’editore pugliese Interno Poesia offre ai lettori in primo luogo la possibilità di un recupero dalle memorie giovanili di un poeta ancora suscettibile di nuove interpretazioni, e secondariamente il piacere di venire avviati in questa riscoperta dall’introduzione acutamente empatica di un altro poeta, Alessandro Fo. Nella nota iniziale, Fo definisce le sue “affettuose linee di accompagnamento” ai versi di Guido Gozzano come “un’innamorata flânerie”, libera da eccessive preoccupazioni critiche testuali. E in effetti la sua presentazione non risulta solo puntualmente concentrata, ma soprattutto vicina a una premura immedesimante, nella volontà di comprensione mimetica delle intenzioni affettive e letterarie dell’autore commentato.
Ma c’è un rifugio? Un tentato colloquio con «Guido Gozzano», si intitola con corretta perspicacia la prefazione di Fo, che subito mette in luce quali siano stati i due binari su cui ha viaggiato la lirica gozzaniana: amore e morte, entrambe illusorie tentatrici, entrambe infedeli adescatrici: “…reduce dall’Amore e dalla Morte / gli hanno mentito le due cose belle…”
L’amore, quindi, anzi l’Amore con la maiuscola, proposito-aspirazione-meta da raggiungere, che sempre si è rivelato ingannevole e deludente per la “cosa vivente detta guidogozzano”: amore rincorso, tradito, infine schernito con irridente autoironia (“Amore no! Amore no! Non seppi / il vero Amor per cui si ride e piange: / Amore non mi tanse e non mi tange; / invan m’offersi alle catene e ai ceppi”, “Non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state…”, “Ah! Se potessi amare! Ah! Se potessi / amare, canterei sì novamente! Ma l’anima corrosa / sogghigna nelle sue gelide sere… / Amanti! Miserere, / miserere di questa mia giocosa / aridità larvata di chimere!”, “Egli sognò per anni l’Amore che non venne”). Al sentimento amoroso Gozzano sembrava avvicinarsi con timore e desiderio, con sospetto e sarcasmo, confessando sia la sua tormentosa sensualità, sia i suoi infidi corteggiamenti, con i conseguenti rimorsi di seduttore impenitente: “Avevo un cattivo sorriso: / eppure non sono cattivo, / non sono cattivo, se qui / mi piange nel cuore disfatto / la voce: «Che male t’ho fatto / o Guido per farmi così?»”, “Un mio gioco di sillabe t’illuse. Tu verrai nella mia casa deserta: lo stuolo accrescerai delle deluse. // … Sotto il verso che sai, tenero e gaio, arido è il cuore, stridulo di scherno”.
Inventandosi uno sminuito e fallimentare alter-ego nella figura di Totò Merumeni (“tempra sdegnosa, / molta cultura e gusto in opere d’inchiostro, / scarso cervello, scarsa morale, spaventosa / chiaroveggenza… // … Egli sognò per anni l’Amore che non venne, / sognò pel suo martirio attrici e principesse, / ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne”), Gozzano accarezzava languidamente l’idea della morte: “Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta. / E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà”. Appunto “la Signora vestita di nulla”, “l’Eguagliatrice”, assediava il pensiero presago del giovane poeta malato (Torino, 1883-1919): “Respinto dalla Vita, Guido ha corteggiato la Morte, o piuttosto ne è stato corteggiato”, commenta Alessandro Fo.
Scisso tra tenerezza e corporeità, cielo e terra, vita e fine della vita, Gozzano trovò nella poesia la via del rifugio (come recita il titolo della sua prima raccolta del 1907): l’unica dama con cui poter instaurare un colloquio sincero, rigenerando nei versi ogni malinconico pessimismo.
La “fede letteraria” di cui spesso minimizzava il valore (“Musa maldestra”, “arte fatta di parole”, “pochi giochi di sillaba e di rima”, “vender parolette”), lo induceva a osare accostamenti sonori provocatori (Nietzsche/camicie, edifici/dentifrici, yacht/cocottes), e a burlarsi delle proprie ambizioni artistiche: “Buon Dio, e puro conserva / questo mio stile che pare / lo stile d’uno scolare / corretto un po’ da una serva”.
In realtà, questo programmato e proclamato porsi dei limiti culturali, restringersi in una quotidianità piccolo-borghese – celebrando “la semplice vita” fatta di affetti modesti, ambienti dall’ “arredo squallido e severo”, frequentazioni rassicuranti –, non era studiata dissimulazione, né compiaciuto scetticismo. Piuttosto, con la schietta familiarità e l’indulgente sottigliezza del suo sguardo sul mondo, Guido Gozzano seppe introdurre nel panorama letterario italiano temi e tonalità lontani dalla retorica del sublime, dell’esotico, del patetico.
Il volume edito da Interno Poesia propone a un prezzo conveniente, oltre a I colloqui, una scelta delle poesie più famose, un ricco apparato di note e un’accurata ricostruzione biobibliografica.
Guido Gozzano, I colloqui e altre poesie – Interno Poesia, Latiano (BR) 2020
A cura di Alessandro Fo – pp. 248
Nessun commento
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.