Riscatto e rigenerazione della vita umana in “ Il Giardino della memoria”
Memoria è una parola spesso abusata, come tutte quelle un po’ di moda, quasi consumate da un eccesso ridondante, si rischia di cadere nella retorica da museo dei buoni sentimenti.
Eppure di memoria c’è bisogno, esiste un dovere della memoria per rendere la capacità di denuncia più lucida, la coscienza umana meno sopita attraverso la condivisione del dolore.
Memoria è ricordo e ricordare è un modo per non perdere niente di quanto non fa più parte della nostra vita. Niente e nessuno.
Recuperare dall’ oblio è quanto Martino Lo Cascio si ripropone di fare nel suo libro intitolato appunto “Il giardino della memoria” che affonda le radici nella cronaca di uno dei più efferati delitti mafiosi degli ultimi decenni: il rapimento di Giuseppe Di Matteo e il suo assassinio avvenuto due anni dopo l’11 Gennaio 1996.
Psicologo, psicoterapeuta che si occupa di adolescenti responsabili di reato, sa bene che il ricordo richiama nel presente del cuore qualcosa che non è più qui o non è più adesso, dissolvendo la forma originale, ma che comunque rivive. Non pensiero fatuo, o sogno fantasticato, ma sentimento concreto, esperienza diretta. Ricordare è la possibilità di consultare il passato,interrogarlo,farlo vivere attraverso la pratica dell’impegno civile.
La storia atroce di Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo ex mafioso, che fu vittima di una vendetta trasversale ad opera di Giovanni Brusca nel tentativo di far tacere il padre e di far ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci, fu alla ribalta di tutte le cronache per l’efferatezza di quell’omicidio poiché il corpo del bambino, mai più trovato, fu sciolto nell’ acido nitrico. Tredici gli anni di Giuseppe, 8 i nascondigli in cui fu nascosto 779 i giorni della sua prigionia.
Lo Cascio con rigore legge atti processuali, legge il racconto dei mandanti, degli esecutori, del tranello con cui Giuseppe era stato sequestrato dai suoi carnefici travestiti da finti agenti della Dia, della ferocia dell’ala dura dei Corleonesi. Quella storia lo scortica, lo prova, lo angoscia, ha pensato diverse volte di scriverla, ma altrettante volte qualcosa gli faceva ripensare al suo proposito facendolo desistere. Eppure l’urgenza di esprimere quello che sentiva per quel bambino divenuto adolescente durante la prigionia mentre trascorreva ore da incubo nel buio delle masserie – prigioni di mezza Sicilia, lo induce a scrivere.
In qualità di filmaker e autore di cortometraggi e documentari avrebbe potuto riprendere il doppio fondo di Giambascio, la casa galera col vano segreto e il pavimento che sprofondava di Giovanni Brusca, quella in cui Giuseppe trova la morte. Ma al racconto tetro e claustrofobico aggiunge una dimensione più profondamente poetica che solo la scrittura, attraverso l’immaginazione, gli consente.
Autore di versi, riprendendo il pensiero di Pasolini secondo cui “non c’è altra poesia che l’azione reale”, Lo Cascio ripercorre quei giorni di prigionia, immaginando quello che potevano essere stati i sogni, le speranze, i desideri, le paure di quel bambino il cui corpo era ridotto a pesare 30kg prima di trovare la morte.
La struttura del romanzo in cui si alterna cronaca e trasfigurazione poetica sembra ricalcare quanto lo scrittore dice di Palermo “millenni della sua storia possono tradursi in questo rapporto tra il sopra e il sotto, tra il visibile e l’indistinta natura della sfumata penombra, tra le certezze del diurno e un sospetto connaturato alla dimensione nascosta delle cose”.
Proprio come le tre direzioni delle gambe nella rappresentazione della Trinacria, tre sono i registri attraverso cui si sviluppa il racconto. L’io narrante della storia è un regista teatrale che accetta l’incarico di scrivere una pièce e per farlo si concentra sui giorni di prigionia del ragazzo; al suo racconto si alternano la voce della vittima che sogna, si arrabbia, è la voce palpitante che attanaglia il cuore, ma è capace di illuminare anche gli ultimi 180 giorni di buio nel bunker. Ci sono, infine, le voci fissate nella trascrizione di stralci di atti giudiziari del processo
Nelle prime pagine troviamo una delle possibili vite di Giuseppe che vive a Mar De Plata, titolare di una piccola azienda, sposato con Consuelo, padre di un bimbo e in procinto di averne un altro. Intatta come nella realtà, la sua passione per i cavalli. Fu al maneggio che Giuseppe viene adescato con l’inganno
Come “un’ antenna modulata su quella lunghezza d’onda invisibile”, recandosi a Monte Gallo, mentre legge le carte processuali che descrivono il piccolo ostaggio legato e incappucciato mentre viene trasportato da un rifugio all’altro in nascondigli preparati di fortuna, l’ io narrante sente la voce di Giuseppe.
Giuseppe che si lamenta infreddolito e soffre di solitudine in quanto nessuno gli parla per paura di essere riconosciuto, che piange così copiosamente che quasi stenta a credere che il suo corpo possa contenere tante lacrime. Vede Giuseppe che cresce lontano dagli sguardi dei suoi, che immagina Mariella sua compagna di banco con cui si capivano a volo, il pianto e la disperazione della madre, il dolore del nonno devoto a quel nipote mentre gli sente dire “Cu tocca a ttia, tocca a mmia”, perché più che appartenersi erano la stessa cosa.
La prosa poetica dello scrittore palermitano si sviluppa in un alternarsi di italiano e siciliano. Anche se il dialetto è vicino al mondo dei bambino, è proprio lui che ad un certo punto si ripropone di non pensare in siciliano per non condividere la lingua che gli fa orrore, quella che lo lega ai suoi sequestratori. Preferisce lo spagnolo, quello parlato da Zorro.
Mentre è a Monte Gallo, da dove si gode la vista di Palermo dall’alto e sembra di essere fuori dal mondo, il regista teatrale si sente travolto dalle parole di Giuseppe, quasi ossessionato. Capisce allora che è inutile fare finta che quel dolore non esista, lo mette in scena. Solo nominando il dolore può sconfiggerlo, la parola diviene elaborazione del lutto, decide di raccontare per ridare pace a se stesso e all’anima di Giuseppe, liberandola.
Primo Levi fa lo stesso, si affida alla parola, scelta obbligata e dolorosa, per dare voce alle parole dell’ olocausto
Mentre i carcerieri di Giuseppe parlano a mezze parole, quelle di Giuseppe sono piene. Piene di sogni come quello di diventare un uccellino per poter spiccare il volo e fuggire, piene di speranza come quella di ricordare le cose accadute scrivendole su un muro utilizzato a mò di lavagna, piene di paura. Paura che la sua testa potesse impazzire, paura della solitudine che “scava un tunnel dentro al cuore” e che lo spezza dal dolore, paura che aumentava con lo sparire della speranza.
La speranza che nel tempo della sua prigionia il padre stia architettando un piano per liberarlo, come fa Lupin che frega l’ispettore Zenigata. La speranza che i supereroi dei giornaletti gli accendono in petto perché nelle loro guerre non si vede spargimento di sangue e quando muoiono si può sempre farli resuscitare ritornando all’inizio della storia quando i buoni “ gli sceriffi, i cowboy, i Superman, e Goldrake combattono i mostri” .
Le parole di Giuseppe sono piene di sogni, l’unica cosa che in quello stato di segregazione può fare. Analgesico in quello stato di deprivazione quando fa i conti con la realtà del suo dolore, una ferita che seppur dovesse un giorno non fargli più male, il ricordo sarebbe pronto a rinnovare.
Durante la prigionia si assiste anche ad una maturazione psicologica del bambino ormai adolescente. Proprio come nel rapporto tra il sopra e il sotto, tra il visibile e l’indistinta natura delle chiese palermitane, cosi Giuseppe che sta crescendo e si accorge che il suo aspetto sta cambiando, nota come gli altri non possono vedere le cose che ci portiamo dentro, ma a limite la nostra buccia “come la superficie del mare che non sai cosa c’è sotto”.
Se Quasimodo scriveva “contro di te alzano un muro pietra e calce pietra e odio”, quel muro che lo separa dalla salvezza e dal resto del mondo diventa un luogo dove esercitare la sua fantasia: dopo averci scritto, con un soffio manda le lettere alla mamma. Alla giusta distanza, inoltre, le macchioline sulla sua superficie prendono corpo diventando spade, tonni, razzi, missili. C’è un’intera geografia fatta di volti noti, di un intero villaggio di persone che risolvono litigi perché c’ è chi ci mette la buona parola, parole di lingue diverse, ma che ciascuno comprende perché accomunate dalla fedeltà, dall’onore e dal rispetto.
Le parole usate da Giuseppe al termine del suo calvario non riusciamo neppure a immaginarle, parole che cadono nel vuoto, sono senza via d’uscita.
Forse avrà ripensato alle parole della sua canzone preferita “la vita mia non sappiamo più afferrare, maneggiare, questo amore che svanisce e sguscia via”.
Ai dettagli tanto più tecnici quanto atroci, alla minuziosità chirurgica di un piano barbaro, alla precisazione di Brusca che quell’infamia era stata compiuta in correità da tutti quelli che vi avevano partecipato, fa da contraltare l’intensità emotiva con cui si descrive la forza di Giuseppe che dice preghiere, che usa la fantasia per viaggiare volando su montagne altissime, che immagina l’acqua la quale, accogliendo il suo volto, si fa carico di trasportare la sua immagine ai genitori attraverso le tubature
Alle parole negate dei carcerieri che meccanicamente riportavano sui biglietti, a mò di pizzini, ordini e richieste, il racconto di questa storia consente di scorgere un altrove in cui Giuseppe non più confinato in quei luoghi di segregazione, è libero dalla sua croce, libero di essere ovunque.
Attraverso la raccolta di informazioni per mezzo di una cernita che la sensibilità opera, le parole, amanti della libertà, scappano dai rigidi confini e i pezzi di frasi raccolte consentono a Giuseppe di arrivare, di imboccare una strada a piedi o sul suo cavallo per partecipare al trofeo internazionale di Roma “Piazza di Siena”. Le parole gli consentono di congedarsi dal mondo in groppa ad un soffio liberatore.
Le parole di Lo Cascio, perciò, ridanno a Giuseppe una nuova forma di vita, consentono di preservarne la memoria che non è solo monumento ed occasione celebrativa, ma segno tangibile che si traduce in scelta pubblica e collettiva in antitesi alla rinuncia e all’ indifferenza
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