Sette case vuote e il realismo magico inquietante di Samanta Schweblin

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23 Febbraio 2023

Il giorno in cui compii otto anni, mia sorella – lei non sopportava che smettessero di guardarla un solo secondo – bevve d’un fiato un’intera tazza di candeggina. Abi aveva tre anni. Prima sorride, forse per lo schifo, poi corrugò la faccia in una smorfia di spavento e di dolore. Quando la mamma vide la tazza vuota pendere dalla mano di Abi diventò bianca come lei. “Abi mio dio”, fu tutto quello che disse la mamma. “Abi mio dio”, e ci mise qualche secondo a entrare in azione. La scosse per le spalle, ma Abi non reagì. Gridò, ma Abi non reagì lo stesso. Corse al telefono e chiamò papà, e quando tornò di corsa Abi era ancora in piedi con al tazza che le pendeva dalla mano. La mamma gliela tolse e la gettò nel lavandino.

Sguardo e voce: sono le due parole che per prime possono definire “Sette case vuote”, raccolta di racconti della scrittrice argentina Samanta Schweblin, edito da SUR. Sguardo sul mondo, su storie osservate nei loro minimi dettagli, anche quelli apparentemente invisibili, capace di andare oltre la linea sottile che definisce normalità e anormalità. Voce, perché la prosa è definita, il linguaggio personale, difficile da paragonare ad altri. Frasi brevi, veloci, dialoghi incalzanti, arricchiti da tutto ciò che non esprimono direttamente. Schweblin spesso suggerisce e non definisce, passando dalla descrizione attenta di particolari apparentemente irrilevanti a grandi omissioni, il cui vuoto riempie l’immaginario del lettore. Niente è superfluo o sprecato. L’essenzialità trasmette un senso di completezza, di piena espressione di “tutto ciò che c’era da dire” sulla vicenda.

Le sette storie, che si giocano intorno alle vite di protagonisti di diversa età, diverso genere, accomunati da un profondo senso di inquietudine, a tratti, ricordano, nella capacità di creare inquietudine, il velo noir di Shirely Jackson. L’anima della narrazione però è differente, alimentata da un realismo magico che è incubo attrattivo. I racconti si susseguono senza che il lettore riesca a mettersi al riparo da un senso crescente di disagio, insinuante, ma a cui apre la porta, che desidera provare. Occorre sapere di più sulla follia di una donna ossessionata dalle case d’altri, al punto di violarle, di una bambina che, nel giorno del suo compleanno, segue uno sconosciuto nella sala d’aspetto di un ospedale, di un’anziana vittima di allucinazioni e persecutrice della vicina di casa. Il lettore vorrebbe sapere di più, ma la sospensione, tipica della forma breve, non crea tanto frustrazione quanto sforzo immaginativo. I racconti restano nella mente, accompagnando il senso di disagio, a termine lettura, con una profonda empatia per questa umanità ferita e abbandonata, senza appello di fronte alla propria solitudine.

Una raccolta essenziale per gli amanti della narrativa breve, ma che può appassionare anche i lettori più scettici rispetto alla forma racconto. Un’impietosa visione del mondo, in cui il troppo umano ha il sapore di un sortilegio andato male.

S. Schweblin, Sette case vuote, SUR, 2021, pp. 134.

TAG: racconti, Samanta Schweblin, Sette case vuote, Sur editore
CAT: Letteratura

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