Sistema ed epoca in Alberto Arbasino

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11 Marzo 2016

Frequento i testi di Alberto Arbasino dalla fine degli anni Settanta. Da  fedele lettore di “Repubblica”, la mia preghiera quotidiana di uomo laico di allora, mi imbattei in una sua articolessa,  di quelle che talvolta  inondavano la pagina culturale centrale, dal titolo: “E il Sud? Mah, boh”, dove con la sua consueta verve Arbasino aggrediva la cosiddetta “questione meridionale”, questione  in quegli anni in cima alla testa di intellettuali, opinionisti, sindacalisti, politici, governanti, ma soprattutto  elettori del Nord che covavano risentimenti  elettorali giganteschi che si sfogarono di lì a poco,  ma oggi praticamente accantonata come un cubo di Rubik.  Il succo dell’articolo – urticante per un giovanissimo meridionale, radicale ma non estremista, che si arrovellava su quel rompicapo del Mezzogiorno italiano in compagnia dei testi di Antonio Gramsci, Rosario Romeo, Alexander Gerschenkron, Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Manlio Rossi-Doria ecc. – era un po’ questo: se il Sud si trovava in quelle miserabili condizioni la responsabilità era anche dei Meridionali (tesi ripresa con toni più garbati e meditati  successivamente da Norberto Bobbio), tant’è vero, proseguiva Arbasino, che un Sud c’è anche negli USA e che ti fanno quelli? Niente piagnistei: mettono su , ad Atlanta, la Coca-Cola! Quell’intervento che ho riassunto a colpi di accetta fu poi raccolto con qualche rimaneggiamento in  “Un Paese senza” (ed. 1981) ed  è ancora lì consultabile.

Certo,  l’approccio disinvolto ad un’annosa questione di sottosviluppo  con la soluzione  spiccia e provocatoria che metteva capo solo a inerzie mentali-culturali mi irritò, come credo irriterebbe oggi Antonio Mutti professore di sociologia dei processi economici e del lavoro e studioso della  modernizzazione con particolare riferimento al Sud d’Italia, docente nell’Università di Pavia (capoluogo di Voghera città natale di A.A.)  il quale contesta  (nel volume “Capitale sociale e sviluppo”, Il Mulino 1998) ogni riferimento a scenari mentali-culturali e finanche  l’uso della nozione di  “familismo amorale” da molti, anche da me,  lungamente accarezzata come  nonsipuotistico e benaltristico  elemento frenante di ogni sviluppo . Ma a parte ciò – non si può chiedere a un letterato di studiare  sociologia economica-, ciò che mi colpì in quell’articolo, fu proprio lo stile brillante e folgorante che gli conosciamo, e spesso non gli ri-conosciamo: so di molti che leggendo  unicamente l’ Arbasino  compulsivo  articolista di quotidiani e periodici ma ignorando il romanziere, il saggista  e il letterato,  storcono le labbra a sentire solo pronunciare il suo nome.

La curiosità mi spinse in seguito ad acquistare sulle bancarelle milanesi (quella mitica dei pontremolesi in Piazza Cavour) “Specchio delle mie brame”, “Anonimo lombardo”, “Certi romanzi”, “Fratelli d’Italia” (edizione 1976, ma mi sfuggì per un soffio quella del 1963). Questi volumi insieme a quelli acquistati in seguito, “Un Paese senza” non appena uscito in libreria,  il numero monografico  “Riga 18” di oltre 400 pp.  ad Arbasino interamente dedicato edito da Marcos y Marcos a cura di Marco Belpoliti e Elio Grazioli, “Supereliogabalo”, “La bella di Lodi”, “Paesaggio italiano con zombi”, “La vita bassa”, “L’ingegnere in blu” , “Ritratti italiani” costituiscono il mio consistente corpus arbasiniano, segno di una cura non usuale  presso un  lettore non professionale quale io sono.

Questi volumi figurano nella mia libreria domestica negli scaffali bassi, a portata di mano, e sono circondati come da un cartiglio invisibile: “E se Arbasino avesse ragione?”. Già, perché il suo stile espressionistico, affollato nella pagina da una selva di punti interrogativi e puntini di sospensione, ricco di divagazioni e pensieri laterali (ecfrasi chiamate nei dizionari di retorica) sembra sorretto da una pungente raison souriante di conio illuministico che porge delle verità paradossali, provocatorie, ma che ti spingono nel retropensiero (andito in cui si formano e rimuginano le vere idee) a pensare: “Sì è vero… però” e a rimandare – mentre esse hanno fatto già breccia nella tua capa-, una successiva soppesazione, una rimasticazione meditativa.

C’è stata questa rimasticazione meditativa, è nel cassetto, ma non ancora pronta a uscire.

Per intanto ecco delle letture di alcune sue opere che danno un’idea del “sistema ed epoca”  in Alberto Arbasino.

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La bella di Lodi 

Un Arbasino giovane giovane, quasi all’esordio, con uno stile a metà fra il racconto naturalistico, da cui in seguito avrebbe preso mille volte le distanze, e la scrittura brada, leggera, molto “parlata”, generazionale (ma con perfetto mimetismo linguistico) dei giovani esordienti di qualche decennio dopo. E un Arbasino fresco e vitale, con lo sguardo acuto sulla società e sul mondo della nostra Italia di provincia.
Sebbene il “romanzo” che abbiamo tra le mani rechi la data del 1972, in effetti è un rifacimento o una riscrittura del racconto dallo stesso titolo pubblicato su “Il Mondo”nel 1960 e da cui venne tratto anche un film con la regia di Missiroli (1963), di cui ricordiamo il faccino lolitesco e sensuale di Stefania Sandrelli, le giuliette per strada e le canzonette in spiaggia come nel “Sorpasso”di Risi.

È difficile disancorare il nome di Alberto Arbasino dalla magia e dal fascino irretente dei nostri smaglianti anni ’60, l’ultimo decennio in cui il futuro sembrava possedere ancora un avvenire. Se in Fratelli d’Italia quella Italia lì trovava nella sua penna tutte le allure di un Paese non ancora cialtrone, fortemente in sintonia, nonostante i suoi “ritardi” storici e antropologici, col proprio passato illustre di mura ed archi, ritraente dei giovani colti ed eleganti a spasso per la Penisola, in contrade non ancora cementificate e periferie imbruttite dagli arredo-bagno, qui Arbasino allunga lo sguardo verso le roride terre native delle marcite e delle rogge, quelle della grassa Lombardia agricola, che oggi è quella di Gianpiero Fiorani e della Banca Popolare di Lodi coi Sik indiani nelle stalle al posto dei bergamini, e che ieri era quella descritta qui con rapidi e precisi tocchi (bellissima e penetrante in funzione di “impaesamento” del lettore, in puro stile “pensione Vauquer” di Balzac, la descrizione nel primo capitolo di questo milieu di facoltosi agricoltori).

Un mondo, dunque, di ricchi possidenti che vivono di agroindustria: terre e mucche, latte e robiole, magioni avite, speculazioni immobiliari a Milano, lauree abbandonate e lavoro in azienda, e grandi dimestichezze con le cifre più che con le lettere… Fitti discorsi, perciò, su capitali e rendimenti finanziari e tagli alle cedole dei BTP, e ritratti fulminanti di nonne e vecchie zie Giuseppine che si prendono delle “scottate in Borsa”: eh sì, l’attaccamento al soldo, ai dané che fan danàa, è il basso continuo del racconto e occupa ogni discorso dei protagonisti sia diretto che indiretto (anzi tanto più i discorsi sono en passant – vedi le rapide allusioni alla tributaria e ai “contributi unificati”- più comprendi quanto siano sottocutanei ed ossessivi). “Tipico” dunque che di questa ragazza, di nome Roberta (che non resistiamo ad associare da un lato alla canzone omonima di Peppino Di Capri e dall’altro alla bella pigotta Beatrice, la “bella di Lodi” del Demetrio Pianelli ), che trascorre la sua Grande Estate Italiana in Versilia scorrazzandovi con un fiammeggiante MG rossa, “tipico” si diceva che non venga tralasciato il dettaglio “naturalistico” del grosso portafoglio da uomo, nero … gonfio di soldi che farà gola al “povero ma bello” amante raccattato in spiaggia.

Attraverso un dialogo molto fitto e molto “naturale” che fa tanto lacerto vivo di vita quotidiana più che romanzo marmoreo finito e rifinito (con un occhio però dal punto di vista letterario al dialogato della Compton-Burnett), con una narrazione semplice (rispetto alle straordinarie complicazioni intellettualistiche degli altri romanzi), con svelte proposizioni nominali ( “Un bel sabato ai primi di settembre”….” Animazione, movimento di fornitori e di servitori e un vivo trambusto”, “Interno di banca, marmoreo, ma con le cicale fuori”…come si vede quasi indicazioni di regia, didascalie da “trattamento” cinematografico), Arbasino porge la storia di questa giovane ricca lodigiana e della sua “stupidata al mare” – e dei successivi sviluppi un po’ da fotoromanzo-, col tipico ragazzaccio italiano “brutto/bello dritto/stronzo coi capelli lunghi e le braccia grosse, vestito come viene viene”, un Garbagnati Franco qualsiasi e per giunta meccanico… un proletario signùr signùr. Da qui la storiella agrodolce, molto commedia all’italiana (par di vedere tra le righe del racconto qualche fotogramma con la faccia di Gigi Ballista) del testa-coda sociale e dello scambio denaro/sesso, quest’ultimo molto esplicito in alcuni punti e dovuto forse alla mano del 1972. Dal punto di vista redazionale la scrittura nel sottofinale si scompone, perde il ritmo e la convinta intonazione realistica, acquista un altro passo; sembra che Arbasino non creda più alla sua storia e la volga perciò in parodia, boutade, consapevole kitsch (appare l’Arbasino espressionista e rutilante citazionista ), per ricomporsi nei due capitoli finali, quelli che preparano la frana dell’happy end dolciastro.

(La disgrazia delle riscritture è che le interpolazioni alla lunga si vedono, e, come nelle tinteggiature di imbianchini non molto provetti, le diverse “mani” saltano all’occhio: sicuramente fanno perdere all’insieme qull’effetto di pienezza creativa che ti dà l’unica, potente gettata).

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Super-Eliogabalo

«Super-Eliogabalo, scritto nel ’68, era la trama finita male di un giovane facoltoso rivoluzionario in lotta contro ben quattro madri terribili, tutte anni Trenta e Parioli, volpi bianche e telefoni bianchi, e in polemica col Pontefice, un personaggio drammatico perché a capo di una gang di produttori di miracoli, però essendo l’unico a credere davvero in Dio. Ma non potendolo confessare a nessuno, per non venir preso in giro dai dipendenti. (Eliogabalo finisce come Gianciacomo, ma prima).»
Con queste parole Alberto Arbasino ricordava sul “Corriere della Sera” del 17/3/2002 la prima edizione di questo romanzo nonché l’amico Giangiacomo Feltrinelli.
Occorre dire che la presentazione del benevolo autore sembrerebbe promuovere un manufatto letterario molto vicino al romanzo (trame, personaggi, un cenno d’azione). Niente di più lontano dalla realtà dei fatti oltre che dall’intenzione dello stesso Arbasino che mai ha scritto romanzi bensì anti-romanzi. E si fa fatica a rintracciare sulla pagina scritta anche quel plot sunteggiato dallo stesso autore. Arbasino detesta il romanzo come narrazione consecutiva (lo ritiene una forma defunta) e concede il dato narrativo-realistico solo in un contesto parodico, annegato nel pastiche. Ha letto tutti gli strutturalisti e conosce tutte le Funzioni narrative ed è tanto Lector in fabula che neanche per scherzo aprirebbe una narrazione o una trama proliferante con un ingenuo e sapientissimo «Era una bellissima giornata di fine novembre», com’è accaduto all’ironico e sapientissmo Umberto Eco de Il nome della rosa.
E dunque… solo elenchi e lacerti saggistici e tirate macrologiche e intarsi di citazioni e descrizioni ridondanti e poesiole fumiste e filastrocche e avanguardismi vari e nonsense e calembour (traTotò e Artaud) e parodie e musical… e narrazioni sì, ma a flash, che per lo più si concludono con battutine non sempre fulminanti.

Per “capire” Arbasino e tentare di leggere Super-Eliogabalo bisogna avere davanti agli occhi Las Vegas, quel luogo in cui nella laguna di Venezia si specchia il Palazzo dei Cesari e sui cristalli della down town nuiorchese si riflette la Sfinge egizia. Analogamente, sullo stesso asse temporale, azzerando gli evi, tutto viene quì disposto in un “adesso” narrativo atemporale ed eterno in un fuori porta romano ed ostiense dove si esce dalla lettiga di Eliogabalo per entrare in un supermarket.
In Super-Eliogabalo Arbasino dilata alcuni tratti di Gadda (soprattutto del Pasticciaccio dove le Lavinie verduraie e i Romoli questurini di oggi forniscono gli agganci per quelli di ieri). L’Eternità di Roma, infatti, è colta metastoricamente in un continuo rimando dalla Decadenza, il periodo dell’Impero Romano più amato dai tempi di Huysmans – che invero sembra essere iniziato col primo Imperatore -, e l’Oggi e viceversa, in una sovrapposizione giocosa e iperculta, in una parodia fine e dissacrante senza fine…
Ma molto materiale visivo di questo libro proviene diretto dai peplum degli anni ’60, dai film di Ercole e Maciste per intenderci…

Fedele alla poetica del «lasciatemi divertire» del sempre amato Palazzeschi, tutta la scrittura di Arbasino è un rutilante e fantasmagorico ed enciclopedico collage di tutti gli stili, di tutte le poetiche, di tutti i libri della civiltà occidentale. O meglio: la messa in tensione ed interazione di tutte queste cose per vedere… l’effetto che fa. Professional kitsch e camp (e trash) sono le parole chiave della sua poetica, cui bisogna aggiungere Kulturkritik (in ombra in queste pagine rispetto agli altri ingredienti ), il tutto fondendo il livello culturale alto e quello plebeo, il sublime ed il pecoreccio, evitando come la peste lo stile medio e impostato e il midcult.
Ciò vuol dire che davanti (e dietro) e prima (e dopo) di questa gigantesca voglia di giocare leggermente col dato culturale, c’è una civile e sottile polemica contro tutti i luoghi comuni, le idee ricevute, le pigrizie mentali del nostro tempo. Un fondo “moraliste”, dunque, seppur di un uomo che come diceva Pasolini s’è «amputato tutti i sentimenti». Arbasino si diverte (perculeggia direbbero a Roma) e il suo impegno parrebbe il più disimpegnato impegno che si conosca se non sapessimo che egli ha rinunciato ad ogni Idea-forza, all’ossequio di un’Idea Centrale, all’obbedienza di una Ideologia, all’ancoraggio ad un Punto di Riferimento, conducendo una personale e solitaria (e negli ultimi tempi assillante, vedi le lettere spedite a tutti i quotidiani) battaglia a favore dell’intelligenza critica, del persiflage colto, del marameo scettico che spesso mi sembra barcollare – tanto è ossessiva la sua insistenza sugli stessi temi – sul crinale di una “disperazione” nichilista.

Il lettore medio stia lontano da questo libro exclusive destinato agli  happy few probabilmente omosessuali, a quell’Internazionale gay (o Homintern secondo la stessa dicitura di Arbasino) che si aggira tra la moda, il cinema, il jet e lo smart set. L’estetica di questo lavoro è infatti tutta dentro i codici gnomici, visivi e retorici della comunità gay internazionale. Da lettore affezionato di Arbasino – ho amato Certi romanzi, Un paese senza e Fratelli d’Italia e gli debbo molte dritte nel campo del sapere letterario -, ma soggiogato da opzioni sessuali etero (nessuno è perfetto!), spesso ho avuto, mentre leggevo, la sensazione di aver sbagliato film, d’essere entrato nella chat sbagliata, di sfogliare la rivista “Babylonia”… troppo strass, troppo bistro, troppi lustrini, troppo lamé… E l’accumulo di dati e di particolari superflui e di citazioni testuali e intertestuali tesi a creare l’effetto Festa Barocca dà, alla lunga, un senso di nausea e sazietà. Troppi culi in libertà, signora mia.

(Spesso mi sono chiesto perché i libri di Arbasino non vengano quasi mai tradotti all’estero, neanche in Francia, nazione a lui più di ogni altra consentanea, e dove una traduzione non viene negata a nessuno sia esso Addamo o Ferrandino. Forse perché Arbasino fa troppo il Parigino fra gli Ottentotti, e, a Parigi, che hanno i parigini autentici, sono attratti perlopiù dal tipico e dal “primitivo” italiano, ossia dai nostri Ottentotti).

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La vita bassa

Per leggere con profitto Alberto Arbasino occorrono alcune “dritte”. Innanzitutto essere avvisati che il suo testo è nei fatti un ipertesto, e questo molto prima dell’avvento di Internet. Si aprono sulla sua pagina infiniti link (ecfrasi, divagazioni, collegamenti, intersezioni) a tutto il sapere e l’immaginario dell’Occidente, da Petronio a Petrolini e oltre, che non sempre è agevole seguire nelle sue connessioni logiche; alcuni di questi link seriali sono solo dei puri elenchi – fascinosi e ipnotici come quelli delle genealogie del Vecchio Testamento o il catalogo delle navi degli Achei nel libro II dell’Iliade-, oppure frutto di concrezioni e moltiplicazioni mentali velocissime, elaborate in frazioni di secondo come in Google. Se non si conosce l’HTML del suo linguaggio si rischia di vedere una pagina di “codici” senza senso, una farragine di segni e punti interrogativi come nelle URL interne delle pagine di Internet estratte, coi search dei motori di ricerca, dai siti dinamici dotati di enormi data base. Il tutto sorretto dalla tesi fatta propria da Arbasino che “tout se tient” e “only connect”.

Intellettuale contestualmente estraneo alla Militanza come all’Accademia, disorganico e in polemica con gli intellettuali organici, lombardo ma romano d’adozione, frequentatore del Bel Mondo e globetrotter internazionale, nei fatti è il più grande scrittore italiano oggi in circolazione. Ce lo dice anche il catalogo Adelphi che lo ha preso fra i suoi, e che in genere marmorizza chiunque assume, in preparazione forse del sarcofago finale dei Meridiani.

Da quasi un cinquantennio Arbasino esercita la sua acre ironia intellettuale nei confronti della cosiddetta “cosa italiana”. Usiamo questa locuzione per sfuggire a quella classica di “carattere nazionale” degli italiani, ma foriera di facili psicologismi, che peraltro la pubblicistica corrente più avvertita ha rimpiazzato con la locuzione, più neutra, ma anche meno esplicativa, di “identità” italiana. Dal 1961, dai tempi della prima edizione di Fratelli d’Italia a questo Vita bassa, in versi e in prosa, nel racconto e nel saggio (per quanto queste modalità comunicative possano essere disgiunte nella sua scrittura), il Venerato Maestro di Voghera si è applicato a evidenziare con il lapis blu i “vizi” nazionali di questo nostro “povero Paese”, un tempo solo un “Paese povero” secondo la boutade del generale De Gaulle. È così stretto il nesso fra questi testi che, per fare solo un esempio, in questo libretto che abbiamo tra le mani tornano pari pari i commenti caustici all’inno di Mameli, già presenti sottotraccia nel primo Fratelli d’Italia, il suo libro più importante.

La polemica contro il conformismo e il miserabilismo degli intellettuali italiani, poveri quando non affamati, alla ricerca perenne di qualche greppia (il partito o Mamma Rai); il versipellismo di tanti tra essi; l’irrisione delle ideologie totalitarie; la lotta continua contro le idées reçues e i tic linguistici più frusti e reiterati ( le solite solfe); la “lunga durata” indicata come strato costante sotto la superficie dell’evenemenziale (corsi e ricorsi); tutti questi temi ed altri ancora trattati nei modi saettanti e leggeri della Kulturkritik e affioranti con più nettezza nei precedenti scritti Un Paese senza e Paesaggi italiani con zombi, di cui questo Vita bassa è un sequel e un aggiornamento al 2008 (un anno che come il ’78, il ’68, il ’48, del Novecento e dell’Ottocento, porta in corpo la tremenda cifra ‘8’ che posta in orizzontale è il simbolo scolastico dell’Infinito, e dunque della nostra “cattiva infinità” nazionale), ci dicono che da lungo tempo l’Italia e gli italiani sono la “metafora ossessiva” di Arbasino, una sua (pre) occupazione intellettuale.

Non per piaggeria né per unzione di retorica ( e corriamo il rischio di queste locuzioni perché per Arbasino frasi come queste sono preamboli linguistici che preannunciano una …cazzata) possiamo dire che di tutto ciò, da devoti lettori da un trentennio delle sue opere, di quelle scritte e di quelle riscritte, gli siamo sinceramente grati: l’Arbasino “illuminista” e scrittore “civile”, iscritto nel grande solco della tradizione lombarda, ci è stato nume e guida nell’interpretazione della lunga durata nazionale, più e meglio di un antropologo culturale. Ma giunto ormai il Maestro alla soglia degli ottant’anni scorgiamo che il suo gesto verbale s’è fatto da ossessivo isterico (vedi le lettere ai giornali), da brillante cachinnante, da sorridente e fantasmagorico, ripetitivo e spietato. Forse non ha più nulla da dire, ma solo da ri-dire, Arbasino. Colpa nostra, degli italiani, certamente, che non cambiamo.

Pasolini diceva che Arbasino si è amputato i sentimenti, e se dovessimo enuclearne uno tra questi, è proprio la pietà quello che è saltato per primo nella recisione, una pietà antropologica verso l’Italia, un Paese abitato dai sauvages de l’Europe secondo qualche viaggiatore del Grand Tour, e ieri perciò primitivo e vitale, corrotto e felice, oggi forse smarrito e confuso, immerso nel brago morale dei propri vizi di sempre, ma incapace di sorriderne come un tempo.
Uno scrittore segue la propria ispirazione e insegue i propri demoni: e Arbasino, come Omero, direbbe che gli Dèi ci danno le sciagure perché i poeti abbiano di che cantare. Ma un libro trova il suo significato anche nel tempo in cui cade, e allora non temiamo di aggiungere che il Paese avrebbe bisogno di qualche soccorrevole indicazione in più e di qualche raillerie bellettristica, persiflage colto, marameo scettico in meno. (I termini francesi sono quelli usati da Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, ancora imprescindibile riferimento per ogni “discorso” sulla “cosa italiana”).

 

TAG: Alberto Arbasino
CAT: Letteratura

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