Vegetali

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4 Giugno 2022

 

Le stagioni ritornano, non noi. Noi sappiamo

solamente invecchiare, ci è precluso il cammino all’indietro.

Ma gli alberi nel parco conoscono in che modo

vestiranno i rami secchi dell’inverno, e attendono

con fede il primo chiaro a marzo. Così loro premio

è il tenero verde, lo sbocciare di foglie timorose

già pronte allo squillo festoso dell’estate.

E non li spaventa il passare dei giorni,

l’arrivo di un autunno più mesto (beati, in tronchi e radici

hanno inciso il ciclo di rinascite durevoli).

Accettano la pioggia, il gelo di dicembre,

pronti alla replica dello spettacolo

di un anno nuovo, di un tempo ancora vergine,

improvviso, se pure posseduto; e poi dimenticato.

 

Nostra invece è una speranza ipocrita

di continuare a esserci, in altre sconosciute dimensioni,

diverse latitudini, smarriti in spazi cosmici

(ah come esistere, per chi, se non avremo più lo stesso viso,

la voce che qualcuno ha amato, le mani

a cui siamo abituati). In cosa potremo riconoscerci:

in uccelli rapaci, delfini, cinghiali siberiani,

o magari in ramarri, insetti calpestabili, microbi, amebe?

Preferibile allora un castagno in giardino,

con la dura corteccia, i frutti spinosi:

dietro al suo tronco si nascondono i bambini

giocando, si baciano i ragazzi,

e nei pomeriggi riarsi i vecchi raccontano

storie, contenti dell’ombra.

 

Sono ciechi, gli alberi, non osservano il mondo:

ma amano lasciarsi guardare nella loro

innocente bellezza, fiduciosa bellezza.

Ci salvano dall’ignoranza, offrendosi

nel verde tranquillo del loro costante equilibrio,

più essenziali di noi, più importanti.

Chiedono solo di continuare a esistere,

fermi nelle radici, fieri dei rami,

dei germogli di foglie, del vento

che li sfiora o li squassa, a cui

non oppongono alcuna resistenza.

Il vento si placa, anche la grandine.

L’albero ha atteso con pazienza; rigoroso, clemente.

 

Effimeri, i fiori; quelli recisi, in un vaso,

marciscono nel gambo, odorano di morte

in pochi giorni: pure così, feriti,

sprigionano una seria dolcezza nei petali

che sanno di spegnersi, superbi tuttavia

del dono improvvisato agli occhi di un amico.

Se un colore appassisce è un secco addio,

incolmabile lutto; vince il nulla,

il trasparente e vuoto. Troppo giallo,

o fucsia, o urlato l’arancione

di un tulipano! Ingiusta assurdità

la morte di un colore, di un fiore variopinto.

 

Il verde che resiste è quello del lichene, del muschio

aggrappato alle rocce, agli scogli; capace

di addolcire il terreno più asciutto, o l’arida

corteccia: di renderli indulgenti. Cerca un sostegno

severo, l’appoggio resistente del sasso; vi si adagia

materno, mollemente lo disseta, umida

coltre affettuosa, proteggendolo dalla troppa

durezza. Fedele sentinella, compassionevole

armatura – così difendesse ogni pensiero

dalla sua ferocia, l’umile muschio custode

della tenerezza.

 

 

Da Elegie del risveglio, Sigismundus, Ascoli Piceno 2016

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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CAT: Letteratura

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