Walter Bonatti: l’uomo che sale più in alto, vede anche più lontano
“Scalare non è una battaglia contro gli elementi, e neppure contro la legge di gravità. È una battaglia contro se stessi.”
Parlare di Walter Bonatti vuol dire confrontarsi con un gigante.
Il “Re delle Alpi” nasce a Bergamo nel 1930, e ha il primo contatto con le scalate su roccia in maniera casuale, quasi per gioco, all’età relativamente avanzata di 18 anni.
È subito un colpo di fulmine. Appena tre anni dopo il giovanissimo Bonatti ha già conquistato alcuni dei più prestigiosi quattromila alpini, spesso violando pareti vergini, e, appena ventitreenne, la sua fama è già sufficiente a valergli la partecipazione alla prima spedizione italiana nel Karakorum del 1954, quella che guadagnerà, prima nel mondo, la vetta del K2 (8609 mt.).
Tra i vari libri che Bonatti ha redatto sulle sue avventure, “Montagne di una vita” è senz’altro quello che colpisce di più di tutti per l’intensità delle sue pagine. Qui infatti l’autore non si limita a rendere conto delle sue scalate, ma, quasi prendendo per mano il lettore, gli permette di riviverle, di sentirsi legato all’altro capo della sua stessa corda. Bonatti prova di essere, oltre che un alpinista leggendario, anche uno splendido narratore: ad ogni pagina sembrano prendere vita le stesse creste ghiacciate, gli stessi pendii verticali che nel corso degli anni ha dovuto affrontare in prima persona, ed è quasi un sollievo quando, chiudendo il testo, ci si ricorda improvvisamente di essere al sicuro e al caldo nella propria casa.
Nell’esperienza e nella pratica estrema di Walter Bonatti “montagna” vuol dire essenzialmente emozioni forti, travolgenti. Molte delle quali, deve essere chiaro, tutt’altro che gratificanti. Che sia il disagio per uno scomodo bivacco sospeso nel vuoto sulle Dolomiti, o il dolore provocato dal gelo estremo a quote di 8000 metri, la paura feroce nel non sentire più i propri arti o ancora il perenne timore di chi sa che l’inaspettato avvicinarsi del maltempo, a certe altitudini, può avere conseguenze irreparabili, Bonatti ci parla di un mondo duro e spesso ostile, con paesaggi lunari e fuori dal mondo, inadatto alla vita, dove il cedimento di un chiodo, o una lastra di ghiaccio invisibile, possono trasformarsi ad ogni momento in una tragedia.
Ma allo stesso tempo, e forse anche grazie a questa continua lotta per la sopravvivenza, egli racconta di un mondo capace di regalare gioie totalizzanti e sensazioni altrove introvabili: come quella che lo coglie nel riveder spuntare il sole dopo una notte passata all’addiaccio a meno 40 gradi, o l’indescrivibile euforia nel rendersi conto di essere finalmente arrivato sulla stessa cima che fino al giorno prima sembrava irraggiungibile. E passando anche e soprattutto per la riscoperta del valore delle piccole cose, che, in alta quota, assumono una straordinaria ricchezza: una tazza di tè caldo, un paio di guanti nuovo, una risata, tutto diventa energia e positività per poter proseguire nell’impresa dell’uomo contro la nuda roccia.
Perché ciò che a valle è scontato, reso banale dall’abbondanza, lassù è una festa. È vita.
Le avventure di Walter Bonatti sono le avventure di un uomo ha deciso di mettere alla prova la propria natura contro la montagna, da lui definita come “una scuola indubbiamente dura, a volte anche crudele, però sincera come non accade sempre nel quotidiano.”
Parole da cui emerge una certa amarezza rispetto al suo rapporto con gli altri esseri umani, in particolare con un certo tipo di alpinisti e di alpinismo (quello che lui definisce “moderno”, caratterizzato dalla tendenza a prediligere la tecnologia piuttosto che le qualità umane, oltre che da una buona dose di arrivismo e di sterile competizione). Un disagio che nasce proprio nel 1954, durante la già citata spedizione sul K2, quando Bonatti fu letteralmente abbandonato dai suoi compagni (Lacedelli e Compagnoni, poi conquistatori della vetta) e dovette sopportare una terribile nottata all’aperto a quota 8100, trovando la salvezza solo grazie ad una straordinaria forza di volontà.
Quell’esperienza lo provò duramente dal punto di vista fisico e mentale, ma non per questo lo spinse ad allontanarsi dal mondo della montagna. Anzi: fu proprio nella solitudine estrema delle Alpi, in particolare nella sua leggendaria scalata solitaria del pilastro del Dru, che Bonatti trovò la forza d’animo per superare quel trauma e votarsi definitivamente ad un nuovo tipo di alpinismo: quello solitario.
La lettura dell’opera di Walter Bonatti lascia davvero impressionati, sia per le esperienze che vi si trovano raccontate, davvero uniche nel loro genere, sia per la grande abilità letteraria di questo scalatore-scrittore, che riesce a descriverci ogni passaggio alpinistico con gli stessi occhi lucidi e colmi di emozione che doveva avere nell’affrontarli in prima persona.
Che sia sulle pareti verticali delle Alpi, sulle vette perennemente gelate dell’Himalaya o nelle desolazioni della Patagonia, Bonatti ci regala un viaggio straordinario in alcuni dei luoghi più difficili e selvaggi del pianeta, ed il suo “Montagne di una vita” va giustamente a reclamare un posto tra i grandi classici della letteratura di viaggio del Novecento.
Un resoconto appassionato e lucido, e frutto di una vita straordinaria. La vita di chi si è lungamente interrogato sull’essere umano, sulle sue debolezze ed i suoi limiti, ma ha anche sperimentato sulla propria pelle la sua innata capacità di superarli.
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