Addio Hugh Hefner, mecenate della bellezza
Ho appreso poco fa della dipartita di Hugh Hefner, il fondatore della rivista Playboy, considerato dal Time come il “profeta dell’edonismo pop”. Mi dispiace molto che se ne sia andato perché chiunque abbia studiato o abbia lavorato per un po’ nel mondo dell’editoria sa che il suo nome è stato un bellissimo caso di studio che ha appassionato tanti giovani, giornalisti ed, ovviamente, editori.
Che bello sarebbe stato far parte di quel mondo, patinato, simbolo di una delle rivoluzioni sessuali più controverse della seconda metà del XX secolo. Hefner, nella sua villa meravigliosa si era costruito un regno che gran parte dei suoi lettori aveva immaginato per sé, aveva avuto modo di incontrare i personaggi più popolari degli ultimi decenni e si era circondato di un harem dalla bellezza, talvolta sin troppo patinata, decisamente ineguagliabile.
“Non crescerò mai” aveva detto circa 10 anni fa alla CNN, “L’importante è mantenere uno spirito giovane, mantenere in vita il ragazzo: molto tempo fa ho deciso che l’età davvero non conta, e finché le signore hanno la stessa sensazione per me va bene”. Che altro dire? Un eterno ragazzo Hugh, che è riuscito a scovare la parte più appariscente della bellezza umana e l’ha trasformata in arte, rendendo meno estenuante e più “dolce” l’esistenza. Gli U2, 20 anni fa, nel loro album intitolato POP, pubblicarono una canzone che prendeva il nome proprio dalla famosa villa di Playboy, con Bono che cantava:
Ci faremo un giro in quella piscina
È chi sai tu che ti farà oltrepassare
I cancelli della villa di Playboy
Allora non ci sarà tempo per il dolore
Non ci sarà tempo per la sofferenza
Non ci sarà tempo per il dolore
Non ci sarà tempo per la vergogna…
Playboy, la rivista, fu fondata nel 1953 e riuscì a diventare un punto di rottura per il mercato editoriale statunitense, partendo con la prima copertina di una bellissima e ancora sconosciuta Marilyn Monroe fotografata senza veli. Le sue “conigliette” diventarono oggetto delle fantasie di milioni di uomini fino a diventare icone della cultura pop di quegli anni, in un’America che aveva ancora un atteggiamento piuttosto puritano nei confronti del sesso. L’idea vincente di Hefner fu quella di presentare donne la cui bellezza aspettava solo di essere staccata dal paginone centrale e appesa un po’ ovunque sui muri di un intero continente che non aveva ancora mai affrontato nulla di simile.
Per tantissimi giornalisti e letterati divenne un piacere scrivere per Playboy, cogliendo gli animi della popolazione maschile in continua evoluzione verso il nuovo millennio, alla faccia dei detrattori e del bigottismo d’oltreoceano. D’altronde Hefner disse che: “Quelli che definiscono Playboy un periodico sexy o un opuscolo di ragazze nude dimostrano solo di non averlo mai letto”, aggiungendo poi: “coloro che acquistano Playboy solo per le donne ricevono ben poco in cambio del loro denaro. I miei lettori, io credo, hanno anche altri interessi: le automobili, la musica, i bei vestiti, la buona cucina, la letteratura, le idee. Quello che io cerco di fare ogni mese è un giornale che dia un quadro completo e il più possibile esatto del raggio d’azione e d’interessi dell’uomo tra i venti e i quaranta. Pubblicare un giornale per questo tipo di lettore senza riconoscere l’importanza delle belle ragazze sarebbe un’idiozia”.
Sarebbe bello se l’esempio così genuino e “innocente” di Hugh fosse seguito un po’ ovunque, evitando di essere a tutti i costi dei cattivisti contro gli altri, contro i diversi, contro chi non la pensa come noi, schiumando rabbia e vomitando retorica in ogni singola parola. È meglio seguire la bellezza, fino alla fine, e godere di essa, fino a quando si ha il potere di farlo, fino a quando si ha la forza di aprire gli occhi e meravigliarsi un po’, con lo sguardo furbo e ridanciano di cui Hugh era forse l’unico depositario acclarato.
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