LIBRO BIANCO SULLA SANITA’ E DINTORNI
Aielli ( AQ) 23 ottobre 2024, Giornata della Costituzione,ore10 Malgrado i suoi 77 anni, nell’integrazione con i Trattati Europei, la Costituzione resta la Legge fondamentale […]
«Se hai un figlio disoccupato vai in Carnezzeria, compra due chili di capretto e vedi che il Signor Pino qualche dritta te la dà. Ma anche su beghe condominiali, questioni ereditarie, diritto di parcheggio abusivo: il Signor Pino trancia e consiglia, affetta e decreta».
Ecco in una frase la Sicilia di Carne mia, il nuovo romanzo (edito da Sellerio) di Roberto Alajmo. La saga familiare, contemporanea con echi biblici, potrebbe sembrare impastata del solito, trito, materiale narrativo sul Mezzogiorno senonché diventa il racconto di due Sud, Palermo e Murcia, entrambi arabi e caldi ma antitetici nel modo di intendere l’esperienza umana.
Con Alajmo (Palermo, 1959), una delle voci letterarie più forti oggi in Italia (Cuore di madre, Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo, È stato il figlio), abbiamo parlato del romanzo, del mestiere di scrivere e di come il Sud tanto in letteratura quanto nella vita reale possa essere un fardello ma anche una grande opportunità.
Il tuo libro si apre con un padre di famiglia che sparisce senza lasciare traccia: è tuttora un fatto comune? L’hai mai vissuto attraverso il tuo giro di conoscenze?
Non direttamente, solo attraverso i giornali, e sempre meno negli ultimi anni, da quando la mafia ha scelto di tenere un profilo basso, e quindi ricorre agli omicidi sono in casi estremi. Non vorrei contribuire a dare una immagine di Palermo stereotipata e allarmante: i fatti che racconto, in questo caso, risalgono agli anni Novanta.
Come si costruisce una storia così? Quanto ha inciso il tuo mestiere di giornalista?
Mi sono ispirato molto vagamente a una storia realmente accaduta, e l’ho ruminata per un paio d’anni senza scrivere niente. Poi l’ho scritta di getto, nel giro di 5 mesi. Il mestiere di giornalista c’entra forse per lo stile asciutto, per il pudore nell’aggiungere invenzione agli ingredienti già molto speziati della realtà siciliana.
Nel libro spicca il personaggio del macellaio che fa da padrino di quartiere. Hai mai conosciuto di persona un soggetto simile?
Non direttamente. Vivere a Palermo significa imparare a selezionare le proprie amicizie e persino le conoscenze. Poi forse, simmetricamente, certi personaggi si tengono alla larga dai giornalisti e dagli scrittori.
La naturalezza dei tuoi dialoghi è più il risultato di ciò che si sente in giro o di precisi ascendenti letterari o cinematografici? Questa goduria del dialogo da chi l’hai presa?
Credo di avere maturato col tempo un certo “orecchio”, per i dialoghi. Tendo a ascoltare sempre molto le conversazioni che intercetto per strada, al bar, sui mezzi pubblici. Mi incuriosisce, più che il lessico dialettale, la sintassi, la costruzione della frase, le concordanze sconnesse del siciliano parlato. Poi è anche vero che vedo molto cinema, molte serie televisive, specialmente americane, dove i dialoghi, ridotti all’osso, possiedono una efficacia che in Italia spesso nemmeno riusciamo a sfiorare. Un dialogo troppo letterario risulta ferale, per la credibilità sia di un romanzo che di un film. Il congiuntivo, per dire: se nella vita di tutti i giorni il mio personaggio non lo userebbe, io non glielo faccio usare. Il congiuntivo dovrà essere salvato, ma non a spese dei miei dialoghi. Se però dovessi trovare un “dialoghista” letterario che mi ha influenzato allora direi Albert Camus.
In che modo la tua dimensione di scrittore e giornalista alimenta quella più recente di direttore di un teatro stabile?
Abbastanza poco. In teatro valgono regole a sé stanti. Per esempio trovo fuorviante, oggi, immaginare uno spettacolo partendo dalla scrittura del testo. Nel teatro contemporaneo la parola è un componente fra gli altri. Magari anche il principale, ma non l’unico. E la parola deve comunque impastarsi con la polvere del palcoscenico.
Ti sei stufato della questione meridionale e di essere subito inquadrato come scrittore palermitano?
Non mi posso lamentare. La Sicilia è un marchio nel bene e nel male, risulta difficile sottrarsi sia ai vantaggi sia agli svantaggi. Il vantaggio principale è poter contare su un immaginario sterminato. Lo svantaggio è doversi misurare con le aspettative dei lettori, che vogliono aver raccontata la Sicilia sempre secondo i soliti luoghi comuni.
Il tuo libro suggerisce il senso di un destino non ineluttabile: è così anche per te? È così anche per la tua Isola?
È il tema fondamentale del romanzo. La redimibilità di quest’isola. Ogni uomo è Abramo, e ogni Abramo può essere Dio di se stesso, se vuole. Specialmente dopo la morte di Dio, siamo chiamati a cavarcela da soli.
Anni fa in un volume curato da Goffredo Fofi [Narrare il Sud, Liguori Editore] scrivevi che il dilemma storico delle intelligenze insulari – parto/non parto – si è fatto più risolvibile in favore della seconda ipotesi: è ancora così? E tu, parti o non parti?
Io resto. Ma forse non scriverei più quel che scrissi allora. Nel frattempo l’ondata di speranze suscitata dalla reazione della società civile dopo le stragi del ’92 si è smorzata. Vivere e lavorare al Sud è ancora e sempre difficile. Ho un figlio che ho esortato a partire. Se rimango è per consentirgli di salvarsi, come nei film western quando l’eroe anziano ferito dice all’eroe giovane: «Scappa, mettiti in salvo. Io sono spacciato, ti copro le spalle».
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In copertina, Palermo, Mercato del Borgo vecchio, 2008 – foto di Luca Savattiere, CC
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Citazione: “Ogni uomo è Abramo, e ogni Abramo può essere Dio di se stesso, se vuole”. Questo è il problema di fondo della Sicilia (e del Sud): sentirsi Dio. E’ il principe di Salina che parla, ne “Il Gattopardo”, quando in inglese dice: “ I Garibaldini sono venuti per imparare le nostre buone maniere, perché noi siamo dei”. E poi, rivolto agli ufficiali inglesi che gli sottolineano la bellezza del suo palazzo, appetto alla bruttezza e sporcizia del quartiere, risponde: “I Siciliani si credono dèi e quindi perfetti, non hanno bisogno di migliorare”. Questo è il vero sostrato cultural-antropologico (alimentato-aggravato dal matriarcato e dall’influenza di mamma-Chiesa) del conservatorismo e dell’arretratezza del Sud. Soluzione? Prima di tutto culturale, attraverso l’implementazione di un progetto educativo rivolto alle mamme in gravidanza (e ai padri) e nei primi 3 anni dei figli. (Vedi “Questione femminile, questione meridionale, rivoluzione culturale e progetto educativo” http://vincesko.ilcannocchiale.it/post/2580796.html oppure http://vincesko.blogspot.com/2015/03/questione-femminile-questione.html).
Mi pare che L’arte di annacarsi non sia stato citato. Ve lo consiglio: una delizia.