Scribani e oratori, pavidi e vili: è la Roma di Tacito o quella di oggi?

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29 Dicembre 2014

Un grazie va a tutti i no che ho ricevuto.

L’idea di questa rubrica latinista – chiamiamola così, per ora – nasce dalle facce imbarazzate, nella migliore delle ipotesi, o sprezzanti e sdegnate, nella peggiore, di fronte alla mia voglia di scrivere, talvolta, di latino. No, non in – scrivere di latino. Una delle cose che più amo -e la resa, si sa, non è attitudine che m’appartiene.

«Suvvia, tanto bello il latino, Andrea, a scuola mi piaceva pure, ma facciamo un’altra volta. Ora parliamo di politica. Fa’ la storyteller. Racconta».

D’accordo, signori, prego. Parliamo di politica, di comunicazione, di società, di giornalismo, di cultura, di costumi, di tutto quello che volete. Solo che, qualche volta, qui sugli Stati Generali, non sarò io raccontarvi tutto questo – saranno gli intellettuali latini farlo. Traduco io.

Chiamiamoli pure antichi, chiamiamoli pure classici, chiamiamoli pure romani – o italiani? Trovare nomi e definizioni non spetta a me, ma a voi, perché non sarò io ad accompagnarvi fin dentro al testo: questa rubrica non sarà un’edizione critica o un manuale di letteratura latina -non è il mio stile.

Questa che vi propongo sarà una sfida intellettuale. Testo, parole, giudizi e pensieri di proprietà di scrittori di duemila anni fa, secolo più secolo meno, pubblicati oggi senza imbarazzo su un giornale online. Io mi limiterò ad accompagnarvi fino alla porta di una certa idea di mondo e ad offrirvi un mazzo di chiavi: starà a voi giudicare se la porta svelerà passato o presente. Tempi antichi e tempi moderni. Imperi crollati o imperi che crollano. Panem et circensem o Masterchef. Roma imperiale o Roma capitale. Homines novi o rottamatori. Vedremo, insomma, quale porta aprirà quella chiave e se vi sembrerà d’essere in un foro o in un talk show.

Nessun giudizio critico, nessuna valutazione, nessuna forzatura del testo. Un esperimento, piuttosto, nato dalla mia ostinazione nel credere che non esistono lingue morte, ma solo cervelli in letargo – in questo caso, s’è fatta ora di svegliarli.

Se, come scriveva Proust, “il tempo è elastico e le passioni lo dilatano”, sarà curioso scoprire se certe inclinazioni della natura italica siano riuscite a dilatare oltre duemila anni di storia di Roma – va da sé, la nostra storia, la nostra Roma.

Cominciamo, quindi. L’autore è Tacito, storico, provinciale (precisamente spagnolo, in un mondo in cui tutto era provincia di Roma) attratto dalla grande bellezza della capitale e che visse e scrisse in piena epoca imperiale – da Nerone a Traiano, per capirci.

Le chiavi di lettura che vi offro sono così semplici che non si possono smarrire.

All’epoca, il lavoro di storico era pressoché equivalente a quello del moderno giornalista. Vostra la valutazione del giornalismo contemporaneo. Tacito, tra gli storici della Roma degli imperatori, era considerato il migliore. Forse un tantino pessimista, forse un tantino a disagio, forse un tantino scrupoloso, ma troppo vecchio per vivere come un giovane che non conservava il ricordo della democrazia e della libertà di parola tramutata in impero e propaganda. Convinto, sopratutto, che criticare senza umorismo fosse l’unico modo leale di combattere.

Gli oratori erano i moderni politici o aspiranti tali. Certo, c’era l’imperatore, ma intorno a lui gravitavano figure di ogni genere e di ogni intelligenza, mediocre o arguta, il cui potere era fondato sull’arte della parola, oggi diremmo sulla capacità di comunicazione, e sulla loro pubblica immagine nel foro. Un potere basato sull’eloquenza in pubblico ma che, per crescere, necessitava di accordi al buio delle stanze dei palazzi. Ascese e cadute si susseguivano per gli oratori dell’epoca -salvo poi ripresentarsi tutti immacolati all’imperatore successivo.

I poeti, in epoca imperiale, erano specie rara: le Muse, dopo Virgilio, ammutolirono – non è dato sapere se per orgoglio o vergogna. I pochi poeti rimasti facevano della poesia schermo della loro viltà: si trattava quasi sempre di storici o oratori che avevano irritato le orecchie dei potenti e che, da ciò terrorizzati, avevano scelto di starsene zitti e buoni, declamando la bellezza di fiori e di amori per non disturbare nessuno. Naturalmente, un poemetto celebrativo non si negava mai a nessun potente -feroce satira compresa quando tal potente s’imbarcava nell’Ade.

A voi.

Cum adrisissent, discessimus. E con una risata ce ne andammo.

 

Hunc ego Lepidum temporibus illis gravem et sapientem virum fuisse comperior: nam pleraque ab saevis adulationibus aliorum in melius flexit. neque tamen temperamenti egebat, cum aequabili auctoritate et gratia apud Tiberium viguerit. Unde dubitare cogor fato et sorte nascendi, ut cetera, ita principum inclinatio in hos, offensio in illos, an sit aliquid in nostris consiliis liceatque inter abruptam contumaciam et deforme obsequium pergere iter ambitione ac periculis vacuum.

Tacito, Annales 4.20

Trovo che questo Lepido sia stato, in quel tempo, un uomo autorevole e saggio: riuscì a correggere in meglio molte richieste altrui dettate da bieco servilismo. E tuttavia non doveva ricorrere a strani equilibrismi per mantenere, agli occhi di Tiberio, un’autorevolezza pari alla stima. Per questo motivo, sono costretto a chiedermi anch’io se, come in tutto, il favore dei potenti concesso ad alcuni e l’avversione provata per altri dipenda dalla casualità o dalla fatalità o se, in qualche modo non dipenda dalle nostre scelte. Non posso non chiedermi se esista la possibilità, tra opposizione frontale e osceno servilismo, di procedere dritti per la nostra strada, liberi da lotte elettorali e pericoli. 

Ac ne fortunam quidem vatum et illud felix contubernium comparare timuerim cum inquieta et anxia oratorum vita. licet illos certamina et pericula sua ad consulatus evexerint, malo securum et quietum Virgilii secessum, in quo tamen neque apud divum Augustum gratia caruit neque apud populum Romanum notitia. (…) nam Crispus iste et Marcellus, ad quorum exempla me vocas, quid habent in hac sua fortuna concupiscendum? quod timent, an quod timentur? quod, cum cotidie aliquid rogentur, ii quibus praestant indignantur? quod adligati omni adulatione nec imperantibus umquam satis servi videntur nec nobis satis liberi? quae haec summa eorum potentia est? tantum posse liberti solent. me vero “dulces,” ut Virgilius ait, “Musae,” remotum a sollicitudinibus et curis et necessitate cotidie aliquid contra animum faciendi, in illa sacra illosque fontis ferant; nec insanum ultra et lubricum forum famamque pallentem trepidus experiar. non me fremitus salutantium nec anhelans libertus excitet, nec incertus futuri testamentum pro pignore scribam, nec plus habeam quam quod possim cui velim relinquere; quandoque enim fatalis et meus dies veniet: statuarque tumulo non maestus et atrox, sed hilaris et coronatus, et pro memoria mei nec consulat quisquam nec roget.

Tacito, Dialogus de Oratoribus 13

 

E non esiterei a confrontare la sorte tranquilla e felice toccata ai poeti che non si occupano di politica con quella inquieta e ansiosa degli oratori contemporanei. Le loro lotte e le loro fatiche possono portare al consolato, ma io preferisco il ritiro sereno e senza inquietudini di Virgilio, cui peraltro non venne a mancare il favore del Divo Agusto e la fama presso il popolo romano. Ora, che cosa c’è di invidiabile nella sorte di questi Crispo e Marcello, che tu invochi come modelli? Forse che hanno paura o che fanno paura? Forse che, pressati da richieste quotidiane, coloro a cui non prestano il proprio servizio si indignano? Il fatto che, vittime dell’adulazione, non sembrano mai abbastanza servi a chi ha il potere e mai abbastanza liberi a noi? E poi, in che cosa consiste questo grandissimo potere? Gli schiavi ne hanno altrettanto. Io desidero solo che le Muse dolci, come le chiama Virgilio, mi portino in quei luoghi sacri e alle loro fonti, lontano dalle ansie, dalle preoccupazioni, dalla necessità di fare ogni giorno qualcosa contro il mio volere. Non voglio aver più nulla a che fare con la pazzia e con i rischi della vita politica. Non voglio più svegliarmi con il codazzo di chi mi viene a salutare o da uno schiavo petulante. Non voglio più, nell’incertezza del futuro, fare testamento. Voglio possedere solo quello che posso lasciare a chi vorrò (verrà il giorno della mia morte), voglio che l’immagine sulla mia tomba mi rappresenti non mesto e spaventato, ma lieto e coronato di fiori. Voglio che nessuno, per onorare la mia memoria, debba chiedere il permesso al senato o all’imperatore.

Nec quisquam respondeat sufficere, ut ad tempus simplex quiddam et uniforme doceamur. primum enim aliter utimur propriis, aliter commodatis, longeque interesse manifestum est, possideat quis quae profert an mutuetur. deinde ipsa multarum artium scientia etiam aliud agentis nos ornat, atque ubi minime credas, eminet et excellit. idque non doctus modo et prudens auditor, sed etiam populus intellegit ac statim ita laude prosequitur, ut legitime studuisse, ut per omnis eloquentiae numeros isse, ut denique oratorem esse fateatur; quem non posse aliter existere nec extitisse umquam confirmo, nisi eum qui, tamquam in aciem omnibus armis instructus, sic in forum omnibus artibus armatus exierit. quod adeo neglegitur ab horum temporum disertis, ut in actionibus eorum huius quoque cotidiani sermonis foeda ac pudenda vitia deprehendantur; ut ignorent leges, non teneant senatus consulta, ius huius civitatis ultro derideant, sapientiae vero studium et praecepta prudentium penitus reformident. in paucissimos sensus et angustas sententias detrudunt eloquentiam velut expulsam regno suo, ut quae olim omnium artium domina pulcherrimo comitatu pectora implebat, nunc circumcisa et amputata, sine apparatu, sine honore, paene dixerim sine ingenuitate, quasi una ex sordidissimis artificiis discatur. 

Tacito, Dialogus de Oratoribus 32

E non mi si dica che basti apprendere ogni volta nozioni superficiali e generiche. E’ chiaro che c’è una bella differenza tra l’utilizzo di ciò che è nostro e di ciò che abbiamo preso in prestito da altri e ben diverso è possedere davvero o ricevere da altri ciò che esponiamo. La competenza in varie discipline arricchisce il nostro discorso anche quando parliamo d’altro e, non dubitate, la competenza eccelle e spicca. E non se ne accorge solo l’oratore dotto e smaliziato, ma anche la gente semplice che, lodandolo, apprezza uno che ha studiato come si deve, che ha percorso ogni tappa, che insomma è un vero oratore politico. Un uomo tale non può esistere né può essere mai esistito se non quando scende nel foro armato di tutte le sue competenze, come un soldato scende in battaglia dotato di tutte le armi. Gli abili parlatori di oggi, invece, trascurano la cultura al punto da cogliere nei loro discorsi il dialetto quotidiano, con i suoi deplorevoli difetti. Ignorano le leggi, non rispettano i decreti del senato, rendono ridicolo il diritto, disprezzano l’apprendimento della cultura e della filosofia. Degradano l’eloquenza, limitandola a pochissime idee e miserevoli battute ripetute, cosicché l’arte della parola, un tempo signora di tutte le arti che riempiva di bellissimo orgoglio gli animi, ora mutilata e caduta in basso, quasi senza dignità, è imparata come uno dei mestieri più volgari.

 Quis ignorat utilius ac melius esse frui pace quam bello vexari? pluris tamen bonos proeliatores bella quam pax ferunt. similis eloquentiae condicio. nam quo saepius steterit tamquam in acie quoque pluris et intulerit ictus et exceperit quoque maiores adversarios acrioresque pugnas sibi ipsa desumpserit, tanto altior et excelsior et illis nobilitata discriminibus in ore hominum agit, quorum ea natura est, ut secura velint.

Tacito, Dialogus de Oratoribus 37

Chi ignora che è meglio godere della pace anziché subire la guerra? Tuttavia, sono le guerre, più della pace, a generare buoni combattenti. La stessa condizione vale per l’uso della parola: tanto più spesso ha preso posizione in battaglia, tanti più colpi ha dato e ricevuto, quanto più potenti sono gli avversarsi che ha sfidato e più duri gli scontri che è andata a cercarsi, così tanto sarà resa più autorevole da quei rischi che ha corso di fronte alle bocche degli uomini – uomini che, per loro natura, preferiscono guardare ai pericoli standosene muti e al sicuro. 

 

TAG:
CAT: Letteratura, Partiti e politici

2 Commenti

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  1. La freschezza del’antica democrazia profuma ancora come appena sfornata :-)

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