Goop Lab, o dell’irresponsabilità di Gwyneth Paltrow
La sacerdotessa bionda siede composta su un divano rosa cipria, baciata dalla luce californiana. Il suo sguardo azzurro illumina di approvazione le parole dei suoi ospiti. Le labbra ne benedicono le dichiarazioni con ampi sorrisi rassicuranti, schiudendosi di tanto in tanto per chiosare con un «Wow» o un «That’s amazing». Tra soffici cachemire color pastello e blandi tentativi di approfondire l’argomento, volano grandi massime e piccoli riassunti su energie extracorporee, dialoghi paranormali, terapie psichedeliche, digiuni simulati, sanguinosi trattamenti estetici, vulve e vagine.
Ma sembrano passati anni dal lancio dell’ormai celebre candela al “profumo di”, astuta trovata di marketing che, rispecchiata anche del rosa vivo e vulviforme che ne incornicia la silhouette nelle foto di lancio, Gwyneth Paltrow ha scelto per annunciare al mondo l’arrivo della sua nuova impresa: il Goop Lab, la mini-serie che traghetta su Netflix l’ardore divulgativo del suo blog-impresa Goop. Sei episodi in cui esplorare e, soprattutto, pubblicizzare, le ultime mode in fatto di benessere olistico e scienze alternative.
Il giochino è semplice: alcuni fortunati dipendenti della bella Gwyneth, selezionati fra il team editoriale, quello amministrativo e addirittura quello di ricerca (ricerca?) del colosso digital Goop, vengono spediti a testare di persona le terapie e i trattamenti cui è dedicata ogni puntata. Si tratta di un manipolo di millennials che emana la parola “privilegio” da tutti i pori: tutti straordinariamente carini, tutti ovviamente benvestiti e tutti uguali, miracolosamente indistinguibili l’uno dall’altro pur nella varietà di origini entiche. Ovviamente ciascuno di loro ha il suo piccolo trauma che verrà puntualmente sanato: ora da una tisana a base di funghi magici, ora da un tuffo nell’acqua ghiacciata, ora dalle magiche mani di un guaritore energetico. Di fatto il meccanismo è elementare: prendere gli ultimi trend della post new age, quelli di cui si chiacchiera tra lo spogliatoio di una scuola di yoga e i commenti su un gruppo Facebook di scienze alternative, e impacchettarli in modo accattivante e fighetto, condendoli di qualche dato scientifico e dell’eventuale endorsement di qualche star.
Fin qui tutto bene, almeno in teoria: la filosofia di questo Goop Lab risiede nel rendere aspirazionale all’ennesima potenza la cultura del benessere alternativo. Come sfogliando una rivista patinata, di quelle un po’ rétro che vanno scomparendo (perché finalmente anche l’editoria cosiddetta femminile sta scoprendo i piaceri, e i vantaggi in termini di seguito, di una rappresentazione che esca dalla triade ricca-magra-giovane), non c’è massaggio che non venga fatto su un corpo tonico e flessuoso, non c’è crisi di pianto che non solchi una pelle splendida e un viso instagrammabile. La seduta di gruppo di terapia allucinogena? Si vola in Jamaica a farla in una villetta nella giungla. La lezione di “snoga” (un finto yoga nella neve)? La provano una mezza dozzina di ragazzi in costume il cui corpo va dal sinuosamente tonico al preoccupantemente magro. Sia mai che dal bikini fuoriesca un rotolino, o che un primo piano riveli una ruga. Ma fin qui, dicevamo, tutto bene: questa patina di omologazione aspirazionale, sorta di gentrificazione dell’immagine, è parte della regola del gioco e tutt’al più può provocare un po’ di noia e una certa difficoltà a identificarsi.
Il problema è un altro, e detona già nelle prime battute del primo episodio, quello appunto dedicato all’uso terapeutico di allucinogeni e altre droghe. Uno dei due esperti quasi non si è ancora seduto e già decreta che le depressioni sono un’emergenza di quest’epoca ma gli antidepressivi sono pieni di effetti collaterali. Vero, verissimo: ma gli stupefacenti invece non ne hanno? L’autore ci suggerisce che i farmaci antidepressivi sono solo dannosi? D’ora in poi chi ha una diagnosi di depressione dovrà farsi un giro in Jamaica a bere tisane di magic mashrooms e passa la paura? Queste domande la padrona di casa non le fa, si limita ad assentire benevola. Così come non commenta il flashback dell’esperienza jamaicana dei “goopers” alle prese con la tisana psicadelica, dove una ragazza un po’ scossa dichiara: «È stato come fare 5 anni di terapia in un pomeriggio». Sicuramente un toccasana: è noto che gli psicoterapeuti procedono per gradi e circumnavigano lentamente i traumi del passato perché sono pigri, lenti e avidi di denaro, non certo perché sbattere in faccia a un paziente un vissuto doloroso e potenzialmente non gestibile sul momento è pericoloso e aggressivo per la sua tenuta emotiva. Ma questi dubbi non sfiorano Gwyneth e i goopers, che hanno scoperto la panacea, anzi le panacee, di tutti i mali.
La rapidità con cui gli psicofarmaci sono accantonati in blocco per buttarsi a promuovere i prodotti psichedelici (su cui c’è davvero una corrente di studio e di cura negli Stati Uniti, ma è un discorso che meriterebbe un approfondimento e non i riflettori di un reality show), è solo un esempio della superficialità con cui Paltrow & co rovescia sugli spettatori una mole di informazioni che toccano temi sensibilissimi, gestendoli in modo totalmente acritico, discettando di spiritualità e “potere della mente sulla materia” con la stessa leggerezza con cui si potrebbe lanciare una nuova sfumatura di colore per i maglioni, campo in cui sì che Paltrow emana competenza. Peccato che le sue apparizioni a inizio e fine di ogni puntata, in cui puntualmente incorona col suo sacro bollino di approvazione il medium, il pranoterapeuta e il nutrizionista di turno, non abbiano il minimo potere di approfondire, commentare, mettere in discussione, controbattere, contestualizzare, relativizzare. La padrona di casa, che pure vuol fare informazione, non formula domande né verifica numeri e fatti: si limita ad assentire, emozionarsi, accogliere ogni ultima moda olistica, mostrando come questa si integri bene e sia un ulteriore, splendido accessorio del suo già invidiabile stile di vita.
C’è solo un momento, a metà esatta della serie, in cui questa diventa interessante. Solo una puntata che merita di essre vista. Si tratta di quella dedicata al sesso, la sola in cui sembra di intravedere qualcosa di reale (in termini di carni, corpi, bisogni non tutti omologati). Qui l’irresistibile Betty Dodson, 90 anni di passione per l’arte e gli orgasmi, si prende il palcoscenico e crea un piccolo show divertente e istruttivo sul piacere femminile e l’ignoranza di molte donne su forma, funzioni e potenzialità dei propri genitali. La sfilata di vulve in primo piano non sembra un esercizio di provocazione ma un momento giocoso di libertà. E lo show, proprio quando parla di sesso, prende aria allontanandosi dal solito cliché “persone bellissime che soffrono in modo sexy”. Ma è un momento di credibilità breve e isolato: dopo un attimo tornano i tappetini di yoga col logo Goop e i trentenni tutti uguali che si entusiasmano per “rivelazioni” varie, molte delle quali qualunque partecipante a qualunque yoga retreat/seminario di biodanza/bagno di gong/festival olistico ha già sentito mille volte. Senza verificarne la validità. E non l’hai fatto nemmeno tu, Gwyneth, che del tuo ruolo di influencer hai fatto davvero un pessimo, pessimo lavoro.
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