I quattro pilastri della crescita USA che l’Europa e l’Italia dimenticano

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8 Gennaio 2015

Il Pil Usa è salito del 5 per cento. Perché gli Stati Uniti sono stati in grado meglio della vecchia Europa di reagire alla crisi? Alcuni dei fattori alla base di tale ripresa sono non ignorati, ma spesso anche condannati in Europa. Vediamo quali.

1. Una politica monetaria espansiva (il famoso QE o quantitative easing) messa in atto dalla FED già nei primi mesi dopo la crisi del 2008 – Annunciata dal Governatore Draghi, con buona pace della signora Merkel e dei suoi falchi, vedremo se e quando sarà effettivamente applicata in Europa.

2. Una sostanziale “liberalizzazione” del mercato del lavoro che oggi permette a molte delle attività produttive, che una volta venivano delocalizzate nei paesi a basso costo della manodopera, di tornare a ri-localizzare. Per esempio nel settore automotive il costo del lavoro pre crisi, si aggirava intorno ai 50$ orari, oggi negli impianti “non unionized” – cioè desindacalizzati -raggiunge valori, a parità di qualifiche, inferiori alla metà . Questa drastica riduzione del costo del lavoro, che seppur superiore a quello dei paesi low cost, una volta tenuta in conto la qualità e la produttività, rende un auto prodotta Detroit competitiva con quelle prodotte in Corea o in Cina; con buona pace del duo Landini e Camusso.

3. La assoluta mobilità del fattore lavoro che permette a domanda ed offerta di incrociarsi favorendo così un maggior tasso di occupazione. Se infatti il capitale è per definizione mobile – gli investitori istituzionali sono sostanzialmente indifferenti su dove investire purché i ritorni attesi (aggiustati per il rischio) siano adeguati (e non a caso molti degli investitori istituzionali stanno oggi aprendo uffici in Africa). Il fattore lavoro, almeno in Europa e certamente in Italia, lo è molto meno. Sicuramente il vantaggio di avere una lingua comune è grande (e per altro è tutto da dimostrare che negli USA la lingua sia una sola), ma la disponibilità culturale delle persone, senza distinguo di classe sociale, a muoversi da un posto all’altro, genera un ulteriore fattore competitivo. Non possiamo peraltro nasconderci che muoversi in USA sia facile, ad esempio grazie un mercato immobiliare non ingessato da leggi e leggine, tasse e balzelli. Un amico cinquantasettenne – diciamo appartenente alla classe medio alta – ha qualche tempo fa perso il lavoro a New York e, dopo pochi mesi, ne ha trovato uno a San Francisco: non ci ha pensato su due volte, ha venduto casa (con annesso mutuo che ha cancellato con una mail ed il trasferimento dei fondi – provateci in Italia!) e si è trasferito con armi e bagagli in California (circa 5000 km di distanza) cominciando una nuova vita. Alzi la mano in Italia quanti , non cinquantasettenni, ma giovani, sarebbero pronti a fare la stessa scelta.

4. Il sistema universitario: se guardiamo una delle tante classifiche delle migliori università a livello mondiale – che vanno comunque prese con beneficio di inventario, The 2012/13 World University Rankings , consultabile su www.topuniversities.com che per stilare la propria classifica considera 5 indicatori (insegnamento, ricerca, pubblicazioni, industry income e internazionalità) – essa colloca tra le prime 50 università al mondo, 29 istituti americani, 7 inglesi, 3 canadesi, 2 svizzeri ed altrettanti australiani, ed uno per ognuno tra Giappone, Svezia, China, Germania, Korea, Hong Kong e Singapore e ciò nonostante un sistema scolastico mediamente meno colto di quello della scuola superiore italiana. Con poche eccezioni (soprattutto UK) si tratta in maggioranza di paesi extra europei, ma dove le università grazie alla dovizia di fondi, per lo più privati, dedicati alla ricerca di base ed a quella applicata, fanno del sistema universitario un motore di sviluppo economico e sociale enorme e che tra l’altro attira giovani provenienti da tutto il mondo.
Solo per completezza di informazione, le prime università italiane si trovano oltre il 250° posto.

Di fronte a questo panorama cosa fa l’Italia? Il governo si appresta a ridurre gli stanziamenti alla ricerca nonostante tali investimenti favoriscano, non solo l’incremento della competitività futura, ma anche l’immigrazione qualificata. Ciò significa non solo importare e trattenere “cervelli “ ma più in generale gioventù altra “merce” molto scarsa in Italia ed in Europa; cioè futuri consumatori – che, ove restassero qui formerebbero una famiglia, comprerebbero mobili per la casa, i pannolini per i figli, i PC e gli smartphone, viaggerebbero e farebbero sport, tutte cose che una popolazione che invecchia, come quella Italiana ed Europea, difficilmente riusciranno a fare, indipendentemente dal ciclo economico e che alla fine si traducono in consumi e crescita economica.

Competitività vuol dire anche, quindi, un’oculata politica d’immigrazione – e sappiamo tutti che immigrare negli Stati Uniti è tutt’altro che facile – che permette l’ingresso ai futuri premi nobel ma fa altrettanto, guardando alle esigenze del proprio modello di sviluppo, con tanti lavoratori stranieri che lavorano nei fast food o nelle catene di montaggio, con buon pace di Salvini o della signora Le Pen.

 

TAG: Fattore Lavoro, immigrazione, Merkel, Quantitative Easing, Università, usa
CAT: macroeconomia

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