L’ILLUSIONE DI UN’USCITA “IRENICA” DALLA CRISI ITALIANA
“[..] occorre considerare molto attentamente che cosa potrebbe accadere se da un giorno all’altro la protezione dell’articolo 18 venisse rimossa per tutti i rapporti di lavoro, vecchi e nuovi insieme: il rischio sarebbe che il giorno dopo scattasse il licenziamento di tutte le persone il cui rapporto di lavoro presenta un bilancio in perdita più o meno rilevante, ma che oggi sono mantenute in servizio dalle rispettive imprese perché protette dall’articolo 18”.
Queste le parole estratte da un intervento insolitamente poco lucido di Pietro Ichino, in cui il giuslavorista tentava di rispondere alle molto condivisibili perplessità espresse da Francesco Giavazzi sul Jobs Act, in particolare sul fatto che l’applicabilità delle nuove norme ai soli neoassunti finirà inevitabilmente per rafforzare il già notevole dualismo del mercato del lavoro italiano e disincentiverà ulteriormente la mobilità. Poco lucido, anche perché, come è stato ricordato, Ichino sembra qui scordarsi che criticità di questo tipo, qualora presenti, potrebbero ben essere risolte attraverso i licenziamenti collettivi, che rispondono ad altra normativa rispetto a quelli individuali.
Nondimeno, in un senso più sostanziale e meno formale, dunque più profondo e dirimente, i timori espressi dal senatore di Scelta Civica colgono un nodo fondamentale, forse persino IL nodo fondamentale dei problemi dell’Italia.
Infatti, il nostro, lo abbiamo già detto, è un paese dove in non piccola parte l’intermediazione dello Stato serve a redistribuire risorse – ed in modo crescente, da cui l’accelerato ritmo del declino – da chi produce a chi vive di sussidi e di assistenza, siano esse imprese o persone fisiche. La necessità di sostenere un simile e perverso meccanismo è ciò che di fatto impedisce l’abbassamento della pressione fiscale, soffocando ogni possibilità di rilancio economico. Una situazione che è il prodotto di decenni di allocazione sbagliata delle risorse, oramai così consolidata da essere divenuta parte strutturale del funzionamento dell’economia nazionale.
Un elenco meditato prenderebbe pagine e pagine, tanto è pervasivo il fenomeno, ma anche solo con la vecchia memoria, e senza nemmeno l’aiuto di Google, è facile accumulare orrori (e miliardi), tra imprese pubbliche, para-pubbliche, semi-private ed oltre (la distinzione non è sempre facile o chiara):
i musei (quanti saranno?) con una statua e 18 custodi; i 66 funzionari addetti alla gestione della casa di Pirandello; l’intera regione Sicilia; l’Atac, l’azienda dei trasporti romani, dove nonostante tutto – gli scandali, l’assenteismo, il costoso bail-out della capitale per mano dei contribuenti – il costo per vettura/km continua, inesorabile, ad aumentare, e dove sarebbero necessari migliaia e migliaia di esuberi per riportare le cose ad una apparente normalità gestionale; le poste, le ferrovie; l’Ilva, dove, prevedibilmente, si cercherà di preservare forza lavoro a tutti i costi, anche se è pura illusione che a Taranto si possa andare avanti a parità di produzione; la saga delle Province; Meridiana, sempre in bilico, per cui si chiedono ulteriori anni di cassa integrazione per i lavoratori di un’azienda che è palesemente non competitiva (da anni); l’uso abnorme della cassa integrazione in deroga – recentemente definita “un mostro” da Tito Boeri – per tenere artificialmente in vita realtà che non hanno nessuna speranza di riprendersi; il sempreverde Sulcis (fino a poco tempo fa cum Alcoa) – su cui merita sempre rileggere l’efficacissimo Alessandro Penati; la spesa pensionistica su pil – anche a causa del ricorso più che disinvolto, negli anni, ai prepensionamenti quale comoda via d’uscita dalle riorganizzazioni aziendali – che non ha eguali in Occidente, in barba alla giustizia intergenerazionale ed a qualsiasi possibilità di riequilibrare il welfare verso il lavoro.
In altre parole, miliardi e miliardi di euro imprigionati in attività non produttive che gravano come macigni sulle speranze di risollevare l’Italia.
Naturalmente, è facile a parole indicare la strada da percorrere. Servirebbe un grande wash-out di imprese e posti di lavoro, prodromo di una epocale riallocazione di risorse verso la parte produttiva dell’Italia che ancora sopravvive, in primis via riduzione secca e cospicua di prelievo fiscale.
Servirebbero, a) licenziamenti diffusi e su scala ad oggi ancora sconosciuta persino ad un paese in crisi cronica, b) riduzione delle prestazioni economiche, i.e. significativo peggioramento del tenore di vita, per decine di migliaia di persone i cui compensi non sono nemmeno remotamente in linea con il valore aggiunto che sono (stati) in grado di garantire.
E qui sta tutto il dilemma, tragico in senso proprio, colto anche dalle parole di Ichino, su cui ora possiamo tornare, il quale sa benissimo che è assurdo e dannoso tenere in piedi rapporti di lavoro dal bilancio in perdita, che le aziende – anche quelle pubbliche, ne va della qualità del servizio offerto ai cittadini e del suo costo di erogazione – non possono, per ragioni comprensibili a tutti, essere un sostituto del welfare, ma sa anche che gestire le conseguenze di ciò che bisognerebbe “lasciare accadere” sarebbe forse impossibile.
Dilemma tragico, ché, avendo permesso alla condizione dell’Italia di farsi così compromessa, non esistono (più) vie d’uscita non dolorose; tragico, perché, anche se ai più piace credere che sia primariamente un problema di casta, la verità è che il grosso dei trasferimenti finisce a chi non naviga nell’oro: il custode del museo siciliano, probabilmente, non guadagna cifre astronomiche, ma la somma di tutte le posizioni come la sua restituisce cifre che sono multipli di ciò che si può recuperare dalla cosiddetta (e pur giustificata) lotta alla casta (e non è nemmeno vero che i privilegiati – nel senso della rispondenza tra contribuzione e prestazione ricevuta – siano in prevalenza i cosiddetti pensionati d’oro, tra l’altro); tragico, perché le risorse, politiche ed economiche, per gestire ciò che seguirebbe non ci sono.
Nulla di più lontano, insomma, dalla “psicologia positiva” e dallo story telling del premier, che, in fuga dalla realtà (di cui, peraltro, in larga parte e per mere ragioni anagrafiche non ha colpa), vorrebbe farci credere che esistono soluzioni in grado di accontentare un po’ tutti. Non è così.
Anzi, nel breve (fatto salvo un mini-rimbalzo ciclico atteso ormai da molti trimestri, ma del tutto irrilevante ai fini del nostro discorso) e medio periodo, è razionalmente assai arduo avere una view positiva sull’Italia, proprio in ragione di questo double bind: se non faremo con risolutezza ciò che va fatto, il declino proseguirà, anche più lesto; se lo faremo, avremo tra le mani una situazione sociale esplosiva. Tertium non datur, a noi pare.
E se non è ovvio per nulla come uscirne (forse un piano di aiuti internazionali che garantisse un reddito minimo, almeno per qualche tempo, a chi verrebbe sbalzato fuori dal mondo del lavoro senza paracadute e, nella maggior parte dei casi, senza skill sufficienti per ricollocarsi, potrebbe essere un’opzione da esplorare), è ovvio parimenti che non servirà raccontarsi favole sull’Italia locomotiva d’Europa.
Ciò che serve, tanto per cominciare, e per quanto spiacevole, è una cosa ultimamente ancora più scarsa delle pur già scarse risorse economiche, la verità.
Un commento
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le imprese in Italia falliscono perché e’ crollata la domanda, non perché c’è’ l’articolo 18. E dare la libertà quasi assoluta di licenziare, riducendo ulteriormente la quota dei salari sul prodotto, potrà solo aggravare la carenza di domanda aggregata. Dovremmo chiederci come rilanciare domanda interna e esportazioni, invece che continuare a colpire i lavoratori. E no, continuare ad abbassare i salari per competere con la Cina non e’ il modo giusto di rilanciare l’export. Sono 20 anni che in Italia seguiamo le ricette neoliberali. Privatizzazioni, riduzione della spesa pubblica, indebolimento dei lavoratori hanno portato solo alla depressione economica, questo e’ un fatto.