Brexit, guardare avanti: ma come?

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27 Giugno 2016

Il risultato del referendum inglese abbia colto la maggioranza degli europei di sorpresa e dobbiamo ormai farci una ragione di questa enorme sciocchezza fatta da un popolo che, per età è il secondo più vecchio del mondo occidentale (solo in Giappone l’età media è più alta di quella inglese) e dove quindi i vecchi hanno “fregato” i giovani in quanto la maggioranza della popolazione è vecchia. Cerchiamo invece di trasformare tutto quanto sta accadendo in un’opportunità. Solo in questo modo sarà possibile pensare (ancora) ad un Europa che possa avere un peso negli equilibri mondiali già che credo sia chiaro a tutti che senza un’Europa unita nessuno degli stati membri, probabilmente nemmeno la potente Germania, potrà avere un peso reale nelle sfide che le nuove generazioni dovranno affrontare.

Molti commenti di questi giorni si incentrano sugli errori fatti dagli inglesi – Cameron che ha convocato un referendum a puri fini di politca interna, Corbyn che non hai apertamente ed efficacemente difeso il Remain, Boris Johnson che, ancora una volta, a meri fini personali e di politica interna si è schierato con il Brexit – ; invece ben poco ho sentito sugli errori fatti dall’Europa in questi anni. Sono gli errori che non solo hanno avuto un ruolo fondamentale nelle paure che sapienti comunicatori hanno installato nelle campagne inglesi, ma che potrebbero averlo ancora di più nei prossimi eventi: le elezioni francesi del 2017 e il referendum italiano (in ottobre?), ad esempio.

Se cerchiamo di essere obiettivi, quali sono i problemi di fondo che incidono sull’umore dei votanti europei? A mio avviso 3: immigrazione, crescita economica (e con essa del mercato del lavoro), austerità. Ahimè sono anche tre temi (o meglio negli occhi di molti votanti problemi) intimamente legati l’uno all’altro e che, per essere risolti richiedono visioni di lungo periodo e probabilmente “politically incorrect” agli occhi di politici che sono sono alla ricerca della propria sopravvivenza al potere.

a)      Immigrazione: gli euroscettici hanno gioco facile nel dire – come hanno fatto in Inghilterra o in Francia – che l’idraulico polacco porti via il lavoro ai cittadini locali. Cerchiamo di guardare invece ai dati. L’Europa, seppur con andamenti diversi, è un continente vecchio. L’invecchiamento porta a maggiori spese per il welfare (a meno che non si decida di modificare le regole di assistenza) ma certamente non porta all’aumento dei consumi. Esistono moltissimi studi economici che dimostrano che la crescita economica (del PIL) è intimamente legata ai consumi con una correlazione che nel mondo anglosassone supera il 90% e, che nell’Europa mediterranea, si abbassa di una decina di punti percentuali, ma è pur sempre superiore all’80%. Negli USA invece la popolazione di età compresa tra i 18 ed i 35 anni somma oltre 60 milioni di persone (su un totale di circa 360), quasi quanta quella dell’Italia nel suo insieme. La maggioranza di gruppo di persone, che sono i consumatori per eccellenza, se sono intergrati, e la società civile offre loro un lavoro – devono/vogliono comprare la prima auto, la prima casa, i mobili, devono mandare i flgli a scuola, etc. – non è di origine americana. Se semplifichiamo il messaggio, l’immigrazione non leva lavoro (con buona pace dei Salvini e dei lepenisti), ma in effetti lo crea in quanto importa giovani che fanno crescere i consumi generando opportunità di crescita per tutti. Questo significa che l’Europa per curare uno dei suoi mali strutturali (l’invecchiamento) dovrebbe favorire con giudizio e logica l’immigrazione e non combatterla. Non mi pare di aver potuto cogliere uno straccio di politica comune europea sull’immigrazione se non quella dei biechi interessi localistici.

b)      Crescita Economica: come detto la crescita economica dipende dai consumi; questi però da soli non sono sufficienti e gli aspetti infrastrutturali “al supporto”, così come l’ammodernamento dei sistemi burocratici. Qualcuno ha potuto notare nelle discussioni degli ultimi mesi una presenza attiva dei funzionari europei nelle discussioni sulle necessità infrastrutturali? Io personalmente no, ma ho invece sentito, come molti di coloro che hanno votato per la Brexit, argute disquisizioni sulle dimensioni minime delle vongole o altre imbecillità di questo tipo.

Alla stessa stregua non si possono dimenticare le necessità di correzione degli squilibri  strutturali dell’equilibrio domanda/offerta. Per chi come me è avanti negli anni, il “piano Davignon” ricorda un piano industriale realmente paneuropeo quando negli anni settanta l’Europa (nella persona del commissario europeo  Etienne Davignon) prese per le corna il problema della sovrapproduzione europea dell’acciaio (non dimentichiamoci che la CECA – Comunità Europea del carbone e dell’Acciaio – fu costituita a Parigi nel 1951 e costituì una delle basi del modello poi applicato nel trattato di Roma del 1957).  “Il piano mirava a chiudere le imprese europee in difficoltà e a rendere nuovamente concorrenziali i restanti impianti applicando il concetto (tedesco) del cartello di crisi sotto controllo pubblico. Il confronto sulla ripartizione dei sacrifici tra i Paesi membri fu assai aspro, ma alla fine l’industria europea ne uscì fortemente ristrutturata e concentrata intorno ad alcuni gruppi di dimensione continentale. Il piano D. ha rappresentato indubbiamente il più importante intervento di politica industriale mai condotto a livello europeo” (da Dizionario di Economia e Finanza – Treccani). Qualcuno ricorda un simile intervento di politica industriale negli ultimi anni?    Eppure se l’Europa si fosse mossa in tal senso forse l’immagine degli euroburocrati potrebbe essere meno lontana dagli elettori delle midland inglesi che hanno votato massicciamente per la Brexit.

c)       Austerità: in questo caso a mio parere il ruolo dell’Europa dovrebbe essere molto più “cattivo” di quello giocato finora. Questo innanzitutto permetterebbe ai politici locali (che raramente paiono avere la stoffa degli statisti) di scaricare le colpe di scelte ampiamente impopolari, ma assolutamente necessarie che l’Italia avrebbe dovuto fare già da anni. Credo che a chiunque si intenda un minimo di economia (non di finanza, ma di economia) sia chiaro che l’Europa – e più in generale il mondo occidentale – ha vissuto ampiamente al di sopra delle proprie possibilità. Il termomentro di tale dramma sta nel debito, pubblico o privato, che abbiamo accumulato e che è esploso dagli anni 80 in poi. Quando si è dovuta confrontare con il problema del debito degli stati membri l’Europa (a trazione tedesca) ha solo saputo determinare ricette di tipo finanziario chiedendo sì sacrifici ma mai collegati a ristrutturazioni di tipo industriale tese ad evitare il ripetersi delle crisi. Tipico caso è quello della Grecia: dopo anni di sacrifici e di sconfitte sociali la Grecia che futuro ha davanti? Su queste colonne ho già discusso della mia posizione in merito alla crisi greca, ma se in un mondo globale dove i prodotti e servizi debbono poter competere, gli amici greci (e molti Europei con loro) debbono adeguarsi con un piano industriale (paneuropeo) che identifichi i vantaggi competitivi di ognuno dei paesi in modo che l’insieme dell’Europa possa competere con paesi che, ci piaccia o no, giocano con regole diverse (dal costo del lavoro a quello del rispetto ambientale, da politiche di aiuto di stato a logiche protezionistiche dichiarate o meno). Anche in questo caso la attuale Europa ha a mio avviso fallito miseramente dando così molte cartucce a coloro che la hanno definita l’Europa dei finanzieri e dei banchieri. Poiché, però, nessuno dei punti  toccati pare ahimè essere utile a far vincere le elezioni alla Merkel o a Hollande, il ruolo dell’Europa potrebbe e dovrebbe essere quello di mettere insieme soluzioni dolorose a politiche di supporto sociale che ne leniscano (temporaneamente) gli effetti, ma che al contempo evidenzino negli occhi dei cittadini degli stati che decideranno di restare in Europa, che esiste un programma di medio lungo termine che porta ad una situazione sostenibile nel tempo senza colpire in modo eccessivo gli interessi degli stessi cittadini (che come diceva un presidente americano “votano con il portafoglio”). Politiche fiscali comuni (il fiscal compact?) meritocrazia diffusa, che permetta a chi lo merita di emergere, supporto ai grandi progetti infrastrutturali, politiche industriali contro la logica dei sussidi e delle multe che ha invece prevalso negli ultimi anni.

 

Sarà l’Europa (intesa come l’apparato), ma al contempo anche noi cittadini Europei saremo capaci di trasformare il grave errore della Brexit in un’opportunità per il futuro nostro e dei nostri figli e nipoti? Difficile dirlo ed ahimè, difficile oggi essere ottimisti al proposito.

TAG: bce, Brexit, EU, europa, immigrazione, Merkel, politica, referendum, renzi, Unione europea
CAT: macroeconomia, Politiche comunitarie

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