Bossetti, il circo mediatico e la legge del branco
Oggi è cominciato il processo a Massimo Bossetti, il muratore accusato di aver rapito, stuprato e ucciso la piccola Yara Gambirasio.
Alcuni programmi televisivi già nei giorni scorsi avevano annunciato la diretta dal tribunale di Bergamo, così come avevano fatto alcuni contenitori per l’estate, che alterneranno le immagini del processo a un’ospitata del senatore Antonio Razzi, che ha annunciato la sua presenza a “La vita in diretta” su Twitter.
Stamattina i telegiornali hanno fatto i primi collegamenti dall’esterno del tribunale, dove una coda ordinata di persone faceva la fila per assistere alla prima udienza del processo Gambirasio.
Il circo mediatico, come ormai molti amano definirlo, si è messo in moto. Non ho mai amato il circo, ancor meno quello mediatico. Soprattutto da quando, mio malgrado, mi ci sono ritrovato, in alcune occasioni, dentro.
La prima volta in assoluto fu quando i quattro contractors italiani furono rapiti in Iraq. Ironia della sorte volle che uno dei tre che poi sarebbero ritornati vivi, Umberto Copertino, io lo avessi conosciuto anche, anni prima. Aiutava il suocero nell’officina da gommista in un piccolo centro in provincia di Bari e mi aveva cambiato gli pneumatici. Non pensavo di rivederlo, qualche tempo dopo, nella foto diffusa dai rapitori, e non capivo come ci fosse finito il mio gommista a fare il contractor in Iraq (molte cose me le spiegai dopo).
In attesa dell’alternarsi delle notizie che giungevano dall’Iraq tramite la Farnesina, il “circo” si installò sotto casa dei genitori del contractor, facendo la fortuna di un ristorante poco distante che sfornò ricevute gonfiate per i pasti a gran parte dei giornalisti presenti.
Sinceramente non capivo l’esigenza di rimanere fissi sotto quella casa, ma capii che i tempi del circo mediatico sono quelli dettati dalla tv. E’ il mezzo che impone collegamenti continui con aggiornamenti che spesso tali non sono: qualcosa, però, di fronte alla lucina rossa della telecamera, bisognerà pur dire.
Ecco, allora, l’affermarsi di una nuova entità mediatica, il vicino di casa: se la famiglia non ha altro da aggiungere a quanto già detto, ci si rivolge a lui per avere qualche particolare. Non inciderà particolarmente nell’arricchire l’informazione, ma al collega della tv risolverà il problema di cosa dire nel prossimo collegamento. Quando a parlare non sarà il citofono, come capita sempre più spesso.
Il vero problema è che i giornalisti sono una delle categorie più autoreferenziali che abbia mai conosciuto. Stare nel circo mediatico per loro è come fare parte di un branco. Stesse dinamiche.
A Marsala, nel cortile interno della Procura, mentre venivano sentiti alcuni parenti della piccola Denise Pipitone, il corrispondente locale di un’agenzia di stampa nazionale, raggiunse il gruppo dei colleghi, commentando compiaciuto “Ecco il circo mediatico”, parole pronunciate con un sorriso a trentadue denti che in quel momento volentieri avrei ridotto di numero.
Lo so, ho un pessimo carattere, ma ritengo che questo mestiere si possa fare seguendo altri criteri: rispetto e sensibilità. Fare il cronista di nera non vuol dire entrare a gamba tesa nel dolore delle persone, acuendone le ferite che hanno appena subìto. Si può attraversare il dolore degli altri e raccontarlo anche in punta di piedi. L’informazione, vi garantisco, non ne risente.
Non era della stessa idea la collega di una troupe televisiva, forse Rai, che fu protagonista di un episodio che al solo ricordarlo mi fa vergognare di essere giornalista.
Manfredonia, provincia di Foggia. Su una scogliera davanti allo stabilimento dismesso dell’Enichem viene ritrovato il corpo senza vita di Giusy Potenza. Aveva 14 anni. Dopo aver subìto un tentativo di stupro, il suo carnefice l’aveva finita a colpi di pietra.
Era stata uccisa – si scoprì dopo qualche giorno – da un cugino del padre, pescatore, che subito dopo l’omicidio si era imbarcato sul peschereccio per il quale lavorava.
Nei giorni dell’indagine, non solo dovetti combattere col capo servizio del settimanale che mi aveva mandato sul posto, quando gli comunicai che, secondo le prime informazioni raccolte, non si trattava dell’omicidio di “un branco”, come ipotizzato dai quotidiani (alla fine della storia, fu onesto, riconobbe che avevo avuto ragione e mi chiese scusa), ma di altro.
Il “circo” si installò davanti a casa dei nonni della vittima dove i genitori si erano rifugiati. Nel corso delle indagini si scoprì che Giusy, come capita ancora oggi a molti adolescenti che vivono situazioni familiari di disagio, in cambio di ricariche del cellulare, aveva probabilmente accettato di prestarsi a qualche gioco erotico.
Sono passati più di dieci anni, ma non riesco a cancellare l’immagine della collega della tv che, senza bussare, spalanca la porta del basso dove abitavano i nonni della ragazzina, pianta il microfono davanti al viso della mamma di Giusy, con l’operatore che riprende tutta la sequenza ovviamente, e pone senza mezzi termini la domanda: “ma lei sapeva che sua figlia si prostituiva?”.
La mamma di Giusy Potenza, incinta di qualche mese, si lasciò penzolare a una corda in casa qualche settimana dopo. Altre due vite spezzate.
No, non amo il circo mediatico. Per questo, quando mi è capitato di tornare a fare il nerista la scelta è sempre stata quella di rimanerne fuori, il più distante possibile.
E forse per questo nessun branco mi ha mai accolto.
@antoniomurzio
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