Ma chi sono questi degli “Stati Generali”?

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30 Maggio 2015

Spesso gli scambi di battute tra lettori sono meglio di un’indagine di mercato, più chiari, immediati, anche liberatori e feroci, comunque immediatamente percepibili. Naturalmente i “social” favoriscono certi dialoghi e sino a che non diventano puro sfogatoio sono utili a capire sfumature e inclinazioni. E non è raro che ti spiattellino in faccia cosa pensano di te. Di te giornale, di te impresa editoriale che cerchi di offrire un prodotto serio, appassionato, di te come entità intellettuale che cerchi di farti largo nel grande mare dei giornali internettiani con le tue povere cose.
Proprio ieri, uno scambio tra due lettori che gravitano intorno a “Gli Stati Generali” mi ha aperto un mondo. Nel senso che si confrontavano due scuole di pensiero: da una parte, una lettrice che dichiarava la sua avversità a ogni tipo di pregiudizio, per cui accostarsi al prodotto-giornale con lo spirito laico di chi vuole farsi sorprendere al di là del nome e cognome di chi ha scritto questo o quel pezzo. Dall’altra, un lettore che invece poneva i suoi steccati proprio a partire dal nome del giornalista, letto a sufficienza per chiudere preventivamente ogni possibile rapporto con lui.

Pretesto per questo illuminante scambio di vedute tra lettori, il pezzo di «Stati» sul pasticciaccio Pd-Antimafia-De Luca, che è andato in pagina con il seguente titolo: «Caro Pd, cara Antimafia, complimenti: siete riusciti a squalificare il voto». La lettrice, che per comodità sigleremo A, lo aveva apprezzato e rilanciato con una frase di accompagno: “A me questi degli Stati Generali non dispiacciono…”, segnalandolo a un amico lettore, che per comodità sigleremo B. Naturalmente, per rispetto, eviteremo di rivelare le loro vere identità. Di seguito, il resoconto testuale del dialogo.

B: «Non sono gli ex Linkiesta, cacciati l’altr’anno? Mi sembrano filolettiani, tipo».
A: «Leggiti la spiega del progetto, Piero».
B: «Obbedisco».
A: «Ma comunque che importa? Spesso scrivono cose ragionanti… Mi pare più importante».
B: «No, dico solo che in passato ci ho letto dei pezzi un filo/lettiani e di sicuro antirenziani (lo so che a te ti vanno bene, Daniela). Poi mi pare che ci scriva l’insopportabile Fusco. Ecco».
A: «Infatti il pezzo è dell’insopportabile Fusco, Piero…, ma mi sa che lui viene da Linkiesta, gli altri non so».
B: «Vabbè, io leggo il progetto (fatto, non dice granché) ma tu leggiti le bios. Tondelli, direttore, lo era de Linkiesta, Fusco (in sopportabilissimo) è amichetto suo».
A: «Fusco ero andata a guardare, Tondelli non me lo ricordavo, ma a me non dispiace… ma insisto, che ci frega Piero… io cerco di leggere i pezzi “a prescindere” dagli autori e dai miei eventuali pregiudizi. Peraltro, nel caso specifico, non ho alcun pregiudizio sugli autori».
B: «Non è questione di pregiudizi, ma di esperienza. Io Fusco l’ho sperimentato abbastanza da sapere che non mi piace quello che scrive. Come da un pezzo non leggo più Scalfari, o non ho bisogno di leggere Sallusti, perché la musica mi pare sempre la stessa. O dovrei sempre leggere tutto di tutti perché non si sa mai che stamattina Galli della Loggia, hai visto mai, mi stende?»
A: «Ah figurati…io non leggo quasi più nulla, se è per questo».
B: «Ecco perché poi non hai pregiudizi».
A: «Esatto».

In questo dialogo tra due persone amiche, che come avete notato si rispettano nella diversità, sono rappresentati plasticamente due modi opposti di avvicinarsi alle cose. Da una parte, il tentativo di sfrondare la lettura di un giornale da ogni pre-condizione politica e partitica, attribuendo evidentemente al prodotto una sua serenità di fondo, insomma un dargli fiducia non a prescindere ma giudicandolo di volta in volta per le cose che scrive. Al di là dei nomi dei giornalisti, che semmai stanno sullo sfondo.

Sull’altra riva, in maniera altrettanto vivace, c’è il lettore che si configura un’idea solo attraverso parametri che non viaggiano sul merito del prodotto, sulla sua bontà o sulla sua pochezza, ma attraverso stimoli esterni molto politici: “filolettiani”, “antirenziani”, in più – parrebbe – con una punta di soddisfazione perché i giornalisti di “Stati” sarebbe stati “cacciati da Linkiesta” (per la cronaca, è vero esattamente il contrario: se ne andarono volontariamente per un fatto di dignità, essendo stato licenziato ingiustamente un loro collega).

Un tempo, la spericolata attribuzione politica di filo-lettiani o di antirenziani sarebbe stata lavata nel sangue, ma ora che siamo in tempo di pace preferiamo battere la strada della ragionevolezza. È davvero fuori da ogni logica per le nostre povere vite svegliarsi la mattina con una casacca addosso, qualunque essa sia, a favore o contro qualcuno. Preferiamo immaginare ancora questo mestiere come una vasta prateria, dove le idee corrono libere. «Io sono mia», espressione che definì pienamente la volontà di autodeterminazione delle donne in anni lontani. Ecco, più modestamente, anche noi siamo nostri

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