Cultura e pubblicità, che scandalo!

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14 Luglio 2017

Perché è così difficile coniugare cultura e pubblicità? Non solo per orgoglio e pregiudizio ma anche perché, come del resto per altri prodotti industriali, è più conveniente passare per vie oblique, a volte contorte. Ma così si finisce per confondere narrazione e comunicazione, narrativa e storytelling.

I lettori ci sono
«I lettori ci sono, ma bisogna pagargli il libro per farglielo leggere». Lo afferma il vignettista Davide Besana, spiegando le ragioni per cui ha deciso di affiancare libri gratuiti a quelli che vende in libreria o su Internet. La sua ultima fatica è Piccolo portolano del Golfo, un manuale scritto e illustrato a mano per chi va in barca nelle acque della Spezia.

Il volumetto è stato realizzato con il contributo della Guardia Costiera e di vari inserzionisti della zona che collaborano, nel proprio interesse, anche alla distribuzione. Le inserzioni sono disegnate a mano, come tutto il libro, e ben distinte dal testo per il colore di sfondo. Il manuale è distribuito gratuitamente anche in librerie specializzate e circoli nautici. La tiratura, signori editori, è di quindicimila copie.

Ora Besana sta meditando di realizzare un nuovo libro con il contributo di sponsor integrali, che gli permettano di conservare quelle tirature che oggi le sole vendite non garantiscono più.

Uno scandalo? ma ci sono precedenti illustri: le storiche réclame nei Gialli Mondadori, per esempio, e nei romanzi di Urania diretti dai Maestri Fruttero e Lucentini. O Fascino muliebre, che Matilde Serao scrisse per i cosmetici Bertelli.

Tralasciamo il tema della committenza, che attraversa dai tempi di Virgilio la storia dell’arte e della letteratura. Ricordiamo invece che il rapporto tra intellettuali e pubblicità è sempre stato proficuo per entrambi, se ben gestito.

Premio Strega: una case history
Quando Matteo Nucci, finalista allo Strega 2017, si è rifiutato di partecipare a un’iniziativa promozionale concordata tra Fondazione Bellonci e Toyota Italia, ha precisato di non avere nulla contro la pubblicità.

L’argomento principale del suo rifiuto era semplice: né lui né il suo editore, già impegnati in varie iniziative connesse con il premio, ne sapevano niente. Inoltre, Nucci contestava i tempi e i modi: «una manciata di giorni … per mettere insieme una decina di cartelle da consegnare gratis a uno sponsor … su un tema che sta a cuore allo sponsor».

Però si è lasciato sfuggire «non mi pareva in alcun modo edificante partecipare all’iniziativa» e «vi immaginate scrittori stranieri … a bordo di una macchina mentre scrivono il loro diario?». Ha avuto un bel precisare, ma a quel punto sono partiti i cori degli ultras della Cultura, quelli che è inaudito che uno Scrittore si abbassi alla pubblicità eccetera.

Dimenticano, gli ultras, Adriano Olivetti e il suo Ufficio Sviluppo e Pubblicità dove lavorarono Leonardo Sinisgalli, Franco Fortini e Giovanni Giudici o l’Ufficio Pubblicità e Stampa diretto da Giorgio Soavi e con firme del calibro di Folon, Munari, Botero.

Dimenticano lo spot di Paulo Coelho per HP ma anche i caroselli del Giro del Bel Paese (Galbani) di Mario Soldati e l’ottimismo con cui Tonino Guerra profumava la vita per Unieuro.

Dimenticano che da decenni i libri, come i film e i cd musicali, vengono usati per promuovere la vendita dei giornali.

E dimenticano gli innumerevoli scrittori che hanno dignitosamente lavorato e lavorano per la pubblicità, a partire dal vate dei copy Gabriele d’Annunzio fino allo spot Barilla sceneggiato da Baricco. Sono tantissimi, chi più ne sa più ne metta (qui sotto, nei commenti).

Narrativa, narrazione e storytelling
Chi frequenta uffici marketing, convegni sulla comunicazione e corsi di storytelling lo sa: c’è confusione. Vige il luogo comune che tutto sia narrabile, che la sola capacità iconica del linguaggio, di qualunque linguaggio, possa trasformare un potenziale cliente in un fan del brand. Soprattutto, che sia necessario e sufficiente cercare strade inedite perché la narrazione funzioni.

Nella vicenda Toyota/Strega si intravede un ragionamento ingenuo da parte dello sponsor: sono narratori, avranno pensato, possono ben occuparsi della nostra narrazione. Il problema è che sono professionisti della narrativa, non dello storytelling. Vabbè fa lo stesso.
Già ma vogliamo anche una narrazione «partecipata, ibrida e dinamica» (e chissà in quante slide, meeting, feedback questo mantra è stato ripetuto dai product manager, prima di finire asap nel briefing per gli autori). In altre parole: come li mettiamo su Facebook? E come evidenziamo il brand? Facciamogli fare un video in macchina che poi postiamo e condividiamo. Tipico esercizio di chi confonde i social con il broadcast.

Stando ai comunicati stampa diffusi da Toyota e a quanto riferito da Nucci, i finalisti dello Strega avrebbero dovuto contribuire alla nascita del «primo libro in movimento» scrivendo un racconto inedito e facendosi riprendere a bordo di un’autovettura «per testimoniare il proprio punto di vista sul concetto di movimento». Concetto che, secondo lo svolgimento già suggerito dal committente, «racchiude il viaggio, l’esplorazione, il miglioramento costante di sé nell’avvicinarsi alla meta».

Sarebbero poi stati raccolti in una silloge destinata a «un pubblico d’eccezione» (ovvero: fuori commercio), mentre il pubblico ordinario avrebbe potuto scaricarli online dai siti Toyota e Premio Strega.

Il risultato e la performance
È finita che gli altri quattro finalisti hanno preso parte a quattro video pubblicati sulla pagina Facebook italiana della casa automobilistica e condivisi da Fondazione Bellonci, Premio Strega e vari concessionari auto.

È difficile calcolare il ritorno di una operazione di comunicazione come questa, inquinata per di più dalle polemiche e soprattutto dai retroscena svelati, soprattutto se l’obiettivo non era incrementare direttamente le vendite ma raggiungere un target e costruire una brand identity.

Sulla pagina Facebook di Toyota Italia ciascuna clip è stata vista circa quarantamila volte. Un risultato non da guinnes ma che può ben figurare nelle prossime slide di marketing, considerando che gli altri video della pagina arrivano solitamente a poche migliaia.
Sul canale Youtube si conta qualche decina di visite, forse solo quelle autoalimentate. Su Twitter i video non sono stati condivisi, Snapchat Toyota non pervenuto.

E quanto ai contenuti, al messaggio, al «miglioramento costante di sé»?
Sono clip semplici, confezionate nello stile delle presentazioni dei concorrenti di talent show. E sono tutte uguali. Lo storyboard è sempre lo stesso: si vedono scene di movimento in auto, in soggettiva, nella città o montagna dove vive o si trova lo scrittore.
Poi si vede l’autore che scende dalla macchina e parla della «sua» idea di movimento: l’idea simbolica del viaggio; lo spostamento di luoghi, personaggi, psicologie; il viaggio come fonte di ispirazione; la letteratura è sempre un viaggio, tutto è viaggio.
Nella seconda parte gli intellettuali parlano di tecnologia e progresso, inquadrati mentre scrivono a penna su un quadernetto. Poi la soggettiva riparte e infine si inquadra di nuovo la macchina.

I racconti, che sono il vero campo in cui gli scrittori avrebbero mostrato proprio talento, non sono ancora disponibili sui siti Strega e Toyota. Eppure è proprio lì, nel lavoro creativo delle nostre migliori menti letterarie, che si dovrebbe vedere la «testimonianza di come l’unione tra eccellenze che lavorano allo sviluppo del potenziale umano rappresenti l’unica risposta concreta a un bisogno di crescita reale e di miglioramento del singolo individuo» (è ancora Toyota che parla). Altrimenti, a cosa serve la letteratura?

Interpellato via Facebook, il social media manager Toyota mi ha risposto: «Continua a seguirci, a breve ci saranno delle novità. ;)». Aspetteremo le novità, ma ormai siamo un po’ fuori tempo massimo.
Questo è un passo falso nella nostra case history, che sembra così una di quelle iniziative organizzate più per poterle raccontare che per farle davvero. E poi, gabbato lo santo.

Sponsor, tabù e convenienza
La responsabile comunicazione Toyota ha chiarito che si trattava «di un progetto di comunicazione e non di una campagna pubblicitaria».
La conduttrice della serata finale del Premio, intervistando il presidente di Strega Alberti Benevento Spa (il cui logo spicca per tutta la sera in sovrimpressione, nell’arredamento e nelle mille bottigliette), precisa che non è uno sponsor del Premio. L’intervistato aggiunge che non si tratta nemmeno di marketing.

Perché affannarsi in queste distinzioni, ai più incomprensibili? Per il vecchio tabù per cui cultura e pubblicità non possono convivere?

O semplicemente perché non conviene. Perché le iniziative culturali, così come le «ospitate» nei Tg e nei programmi di informazione e le recensioni sui giornali, che i promotori di cultura e gli uffici marketing si affannano a inseguire (e in vari modi a ripagare), non vengono computate come pubblicità.

Le testate giornalistiche non possono ospitare pubblicità mescolata ai contenuti. Perciò se vendete automobili o liquori non potete andare al TG3 Linea Notte o su La7 a Otto e mezzo e parlare del vostro prodotto (se vendete automobili dovete rivolgervi alla redazione del supplemento Motori, se vendete liquori potete sperare negli inserti gastronomici).
Ma se avete scritto un libro potete facilmente trovarvi a commentare allo sbaraglio fatti di attualità di cui non sapete niente, talvolta con effetti anche comici, certi però che il vostro prodotto in qualche modo sarà nominato (senza mostrare la copertina).

Moda, cosmetici, macchine, accessori: per anni i giornali, soprattutto periodici, si sono mantenuti così. Eh ma adesso i giornali non funzionano più.

Perciò aumentano l’affanno e la fatica degli uffici stampa, e aumenta la confusione: affidandosi all’improvvisazione, a format acrobatici e contesti ormai desueti, si rischia di fare brutta figura o peggio di creare sfiducia.
Torniamo per esempio alla serata finale dello Strega: la conduttrice intervista Wanda Marasco e le chiede banalmente se di lei «c’è qualcosa che non si sa e che stasera lei ci vuole raccontare». La finalista, secca, risponde: «Di me saprete attraverso le mie pagine. Non ho nessuna intenzione di mettere in vendita la mia vita». Sbam.

Il mito della promozione della lettura
Non sarebbe più sicuro uno spot fatto professionalmente, come per qualsiasi altro prodotto?

Invece no, ci si affanna a inventarsi sempre qualcosa di nuovo per «promuovere la lettura», intendendo sempre però che la lettura sia quella dei libri, possibilmente cartacei e cartonati, in commercio. Leggere online no. Leggere sullo smartphone no. Leggere su Wikipedia, su Wattpad, su Facebook no no no.

Si organizzano miriadi di festival ed eventi culturali che, se da un lato promuovono le vendite dei libri e arrotondano con concerti e cocktail i conti dei produttori di cultura, dall’altro sottraggono tempo alla lettura fornendo un più rapido (partecipato, ibrido e dinamico) appagamento intellettuale.

Non sarebbe più semplice, economico ed efficace essere più diretti?
Scrittori, editori, artisti! Volete promuovere il vostro lavoro che i lettori non comprano più? investite in pubblicità, o cercate uno sponsor e dichiaratelo senza vergogna.
Pubblicitari, produttori di detersivi, case automobilistiche! Volete unire la vostra immagine a un discorso culturale? scritturate un intellettuale telegenico e fategli girare uno spot fatto bene.

Come quello in cui per decenni il chitarrista Franco Cerri, un artista puro e uno dei maggiori musicisti jazz italiani, ci ha ricordato in ammollo che nooo, non esiste sporco impossibile.

O come quello in cui Bob Dylan, di lì a poco neghittoso Premio Nobel per la letteratura, per conto di Chrysler scandiva con orgoglio: «We. Will build. Your car».

TAG: libri, premio strega, pubblicità
CAT: Media

2 Commenti

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  1. marco-baudino 7 anni fa

    La credibilità di ogni spot è uguale a zero. I prodotti sono tutti uguali e puntano sulla emotività, non sui contenuti. E per i prodotti alimentari ad esempio, osservo che più sono pubblicizzati, più sono di bassa qualità industriali e legati al mondo degli allevamenti intensivi, della agricoltura alla “Monsanto” , della forza del business e del denaro. È inutile negarlo, chi si permette il lusso di pagarsi la pubblicità è perché ha i soldi, non è quasi mai detto abbia un prodotto di qualità. Lì vince la capacità emozionale dello spot. Ma i consumatori non sono tutti cretini. Al di là che non mi spiego quale sia la leva che spinge il consumatore ad acquistare prodotti pubblicizzati da Banderas che parla alle galline di “balle spaziali” in merito alla qualità e alle caratteristiche reali di quei prodotti… Sicuramente il costo di quei testimonials non può permetterlo chi tutti i giorni lavora per promuovere prodotti veramente eccellenti sani genuini! Che rabbia!!!!

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  2. marco-baudino 7 anni fa

    Permetterselo…

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