Se ne deduce che papà John e mamma Lavinia, a Leone Mosè (14), Oceano Noah (13) e Vita Talita (8), i loro tre cicci, non lasceranno in eredità quel giornale di sinistra che un bel giorno acquistarono dai due fratelli giornalisticamente a-sentimentali, che babbo Cdb considerava persino inetti. Leone e Oceano, che l’età porterebbe a considerare smanettoni contemporanei, forse un bel giorno vorranno capirne di più: “Come mai avevi comprato Repubblica, daddy, se dopo qualche anno l’hai chiusa?” John, che pensa in francese e poi traduce in italiano, imbastirà una risposta di mercato, che comprenderà congiuntura economica di quegli anni, ostilità di una redazione (gli editori ce la mettono sempre l’ostilità della redazione), e, cunto de li cunti, l’idea che il progetto visionario di trascinare nel campo della destra più o meno liberale un giornale che per circa 45 anni era stato più o meno saldamente il presidio della sinistra, non aveva attecchito. Un progetto che probabilmente era troppo avanti, che la società non era ancora attrezzata per digerire un cambiamento di quel genere. Leone e Oceano cresceranno, poi faranno da soli, amori, speranze, carriere, fino a che un bel giorno incontreranno per caso, in una piazzetta di Lisbona, uno dei figli di quei giornalisti là, proprio di quelli di Repubblica di quegli anni, che di fronte a un bicchiere di rosé tireranno fuori la verità senza troppe cerimonie: “Vostro padre vi ha raccontato un sacco di cazzate”.
Fino a quel momento, noi qui dobbiamo ragionare con quello che abbiamo. E cosa abbiamo, cosa ci ha detto la storia del giornalismo di questi anni, mettiamo da cinquant’anni a questa parte? Che non è mai (mai) successo che un imprenditore-editore abbia comprato un giornale, un certo giornale posizionato da tutta una vita in una certa condizione politica, e poi ne abbia volontariamente trafugato l’anima, sostituendola con il suo opposto. Ché alla sola idea, alla sola esposizione, uno ti direbbe subito: “Ma che coglionata è?” Compri il Manifesto e vuoi fare la gazzetta di Casa Pound? (caso estremo eh). Sarebbe un progetto editoriale senza né capo né coda, che non ha la minima speranza di riuscire, che semmai alimenta più di una malizia sulle reali intenzioni di tutta l’operazione. È già capitato, certo, in questa confusione politica che ci tocca di vivere, dove destra e sinistra hanno annebbiato i contorni, che imprenditori acclaratamente di destra si siano interessati a un’editoria di sinistra. È persino comprensibile che un certo mondo della destra, che la società poteva magari considerare volgarotto e parvenu, si volesse proteggere con qualche ottimo prodotto radical chic e fu così che gli Angelucci, noti per le cliniche e le simpatie destre, ci provarono prima con l’Unità, venendone respinti, e poi con il Riformista, operazione ch’ebbe miglior sorte, ricevendola in dote a peso d’oro da Claudio Velardi. Ecco bene, gli Angelucci. Il capostipite di famiglia anche parlamentare di Forza Italia. Insomma, tutte le carte in regola per esercitare le proprie idee, sganciando i propri soldi. Ma agli Angelucci non passò neppure per l’anticamera del cervello di snaturare la reale condizione culturale del Riformista, restandone fedele e proponendo per il ruolo di direttore addirittura Paolo Franchi, grande editorialista del Corriere della Sera, socialista antico e perbene.
(Qui tocca dire brevemente dell’unico che ce la fece. Un genio di questo mestiere: Vittorio Feltri. Fu lui a raccogliere le spoglie di un quotidiano – l’Indipendente – che era nato totalmente british almeno nelle intenzioni liberali e nella testa del suo elegantissimo fondatore-direttore, Ricardo Franco-Levi. Il giornale non decollò (eufemismo) e così finì nelle mani del nostro, il quale lo trasformò in un meraviglioso manufatto pop-gogna-menefreghista al tempo di Mani Pulite, con esiti editoriali strabilianti: da diecimila a centoventimila copie.)
Se nella storia di questo mestiere nessuno ci è mai riuscito, pur con tutta la considerazione sarà difficile che possa centrare l’obiettivo John Elkann. Anche per delle ragioni che fanno parte del bagaglio minimo di un manager editoriale, e in questo ruolo c’è Scanavino, il quale deve ragionare su numeri, flussi, formazione del consenso. La domanda che porremmo a John via Scanavino è la seguente: dando per scontato la perdita, almeno quella fisiologica, di un certo numero di lettori affezionati alla vecchia Repubblica, per quale misterioso motivo altri lettori provenienti da pianeti non ancora scoperti dovrebbero convergere sulla Repubblica di Maurizio Molinari? Lettori del Corriere, escluso. E per un motivo semplice: il Corriere è tutto costruito e da sempre sull’impianto liberale. La Repubblica di Molinari no. Al suo interno, gli uomini e le donne che ci lavorano appartengono a un pianeta molto ben riconosciuto e che trae le sue origini da quella Repubblica di Scalfari, che ancora l’altro giorno evocava il liberal-socialismo. Altri lettori che possono convergere su Repubblica, ma chi? Destri più pronunciati hanno già randelli più soddisfacenti, gente di sinistra neanche a parlarne.
C’è poi il fattore Molinari. Evidentemente John pensa che sia un ganzo da bestia. Ma insomma, vista la Stampa che ha diretto, non ne abbiamo evidenze conclamate. La gestione dell’affaire Fca/ prestito da 6,3 mld non è parsa tra quelle giornalisticamente più riuscite (eufemismo). Non sembra neppure un’aquila, cioè quelli tra lo scaltro e il veloce. È un duro, passa per tale. Ha un compito di grande responsabilità, per conto dell’azienda. Dovrà gestire una fase delicata di Repubblica, probabilmente con profonde e dolorose ristrutturazioni interne. Bene, visto il clima che aleggia sul giornale ti metti anche di traverso con il sindacato, non pubblichi i comunicati del Cdr? Non sembra una scelta intelligente. Un piccolo episodio, però, possiamo raccontarvelo. Rivelatore di un modo di stare al mondo. Qualche anno fa, era il tempo delle elezioni a Roma per il sindaco, Repubblica fece uno scoop su D’Alema. Raccogliendo voci interne a una riunione di Italiani-Europei, la sua Fondazione, Goffredo De Marchis cavò alcune sue gustosissime considerazioni: «Io voterò Raggi» – aveva rivelato D’Alema ai suoi interlocutori. Una notizia di un certo rilievo. Non solo. Aggiunse: «Piuttosto che votare il Pd di Renzi voterei Lucifero». Il giorno dopo, nei corridoi della politica non si parlò che di D’Alema e delle sue rivelazioni. Cosa ti concepisce il Molinari, all’epoca direttore della Stampa, che era già giornale del gruppo Gedi e dunque obbligato almeno al rispetto di un gioco di squadra? Ti confeziona un’intervista col D’Alema medesimo, a firma Geremicca, in cui dice che quelle cose pubblicate da De Marchis lui non si era mai sognato di pronunciarle. La mattina, la Stampa tra le mani, Calabresi fa un salto. Chiama alle otto Molinari e lo solleva. Lo accusa di essere stato gravemente scorretto. Quello abbozza. Fu un episodio rivelatore.
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Feltri Vittorio un genio? Dov’è allora finito l’Indipendente dalle 100 mila copie? E come mai Libero (sic!) ha subito un tracollo nelle vendite: 28 mila copie. No, dico 28 mila copie.La destra ignorante e volgare dovrebbe averne a mucchi di geni simili…