Femminicidio: una piccola riflessione sulle parole che non sappiamo dire

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1 Agosto 2016

Piccola riflessione senza alcuna pretesa sugli episodi di violenza sulle donne che sono spesso presentati con la parola femminicidio

Mentre elaboravamo i nostri pensieri confusi, come spesso accade, la realtà ci scavalcava ancora con la sua triste violenza: una violenza opaca e dolorosa, che ci svela la parte mostruosa di questo nostro momento.

Molti dei delitti che ci circondano sembrano il frutto sinistro del decomporsi della gioia, del venire meno dei rapporti e delle relazioni, siano esse amorose, commerciali, e anche politiche.

Una violenza cieca e senza premeditazione che, in questa sua semplicità, appare ancor più immotivata e incomprensibile.

I tanti casi di femminicidio, che si ripropongono come una triste liturgia, ci costringono a domande davvero inquietanti sul nostro presente e sulla libertà che le donne hanno conquistato.

Ho avvertito quanto fosse ineludibile questo passaggio e quanta misera era la mia pretesa di dire qualcosa.
Ho dovuto compiere una scelta non dico sofferta, ma almeno meditata, tra il tacere per timore di errore e il dire, comunque, per avviarmi almeno lungo la strada.
Ha prevalso il disperato bisogno di interrogarsi e di riflettere. Non ho parole intelligenti, frasi esaustive, analisi complete: ho abbozzi, spezzoni, inizi.

Credo, però, con convinzione, che per spezzare il cerchio inumano di questa violenza, sia necessario che gli uomini di oggi, quelli cioè che convivono con l’affermarsi di donne sempre più libere, apprendano a raccontare le proprie frustrazioni, le proprie sconfitte, rispetto a modelli che li vedevano dominanti e avvantaggiati.

Raccontare è sempre uno sforzo; raccontare ciò che ci turba e ferisce lo è ancor più; raccontare ciò che ci fa sentire di aver perso un privilegio è, infine, quasi vergogna.

In fondo, la prima sconfitta che molti uomini sembrano patire è proprio il doversi raccontare, il dover spiegare, il dover chiedere, il dover perorare: avevamo imparato davvero bene che, anche nel silenzio, le nostre aspettative sarebbero state soddisfatte da chi era stata educata a rispondere, nel silenzio, alle nostre attese.
Al dissolversi di questa convinzione, la violenza è spesso lo strumento più prossimo.
Troppi uomini appaiono incapaci di modificare la trama profonda dei propri sentimenti e, anche quando sembrano aver accettato gli eventi di questa che vorrebbe essere una nuova società, fanno riemergere antiche tentazioni di dominio che si traducono in atti di violenza senza giustificazione.

Davvero accade tutto all’improvviso? Abbiamo un modo per capire ciò che sta per accadere?
Non dovremmo prima di tutto noi uomini, se questa categoria ha un senso, confessare quanta distanza separa le modifiche della superficie delle cose dalla profondità di un atavico predominio che emerge quando cadono gli argini?

Posso condividere le difficoltà che so vedere e renderle tema; di altre osservazioni, ben più profonde e necessarie, si sentirebbe il bisogno.

Un uomo bianco occidentale è cresciuto per secoli in una posizione di estremo vantaggio rispetto a tutte le donne e a tutti gli uomini diversi da lui.
Tutte le donne, diciamo quindi almeno la metà della popolazione, erano al suo cospetto inferiori, remissive e capaci di obbedienza.

Gli uomini di altre lande, altri colori e altre culture, gli sono stati anch’essi per secoli sottoposti.
Quest’uomo abituato al dominio, al portare avanti il colonialismo e lo sfruttamento ha introiettato usi, costumi, abitudini, necessità materiali e psicologiche e ha imparato a veder soddisfatte, entro margini quasi ragionevoli, le proprie richieste.

Il mondo ha subito inattesi, veloci e travolgenti cambiamenti e, forse, sono state dichiarate come acquisite novità che non hanno avuto modo di agire nel profondo.

Ci sono donne che guadagnano più dei loro compagni; ci sono donne che comandano più dei loro compagni; ci sono donne che decidono di chiedere alla vita e all’amore una felicità vera e non fittizia; ci sono così tante novità e ci sono molti più soggetti con i quali competere.
E allora i cosiddetti maschi, perdendo le proprie rendite di posizione, vanno in tilt e non ammettono di poter essere messi da parte.

Come può una donna avere la pretesa di preferire un altro? Di chiudere una storia, come se lei potesse avere un vero peso nelle decisioni? Com’è accaduto tutto ciò?
La velocità del mutamento è stata tale che, probabilmente, questi maschi si trovano davvero in una situazione asfittica nel contrasto tra i vecchi modelli educativi e familiari e le nuove dinamiche delle relazioni.

E, mi si perdoni, la brutalità della conclusione, non sapendo che fare, non sapendo come gestire il distacco e la separazione, puniscono, colpiscono, uccidono.
Lo fanno perché in realtà, assumendo per un istante il loro patologico punto di vista, davvero non capiscono, non sanno capire, non possono capire la voglia di libertà e di indipendenza di chi cerca di allontanarsi da loro.

La ferita patita, in termini di narcisismo, orgoglio, prestigio, possesso, è talmente potente e profonda da non ammettere mediazioni. E’ un eliminare per ribadire un potere: è il potere dell’assassino che pensa così di negare, in via definitiva, la libertà dell’assassinato.

Sempre sono colpito da questo tipo di delitti e sempre mi sento spinto a pormi domande. Devo però dichiarare un limite nelle cose che so vedere e ritengo, quindi, molto più rilevante l’ascolto delle voci delle donne e delle loro sofferenze.

Un aspetto m’incuriosisce e m’interroga, forse perché si può sposare con le banali riflessioni che ho saputo fin qui fare. Molte donne sono uccise dai loro ex compagni in occasione di quello che è presentato come un colloquio chiarificatore.

Mi domando sempre che cosa sia un colloquio chiarificatore, quando una coppia è ormai andata o quando già sono state consumate dosi massicce di violenza. Che cosa c’è da chiarire?

Il maschio di turno deve probabilmente recarsi a tale incontro sorretto dalla convinzione di avere delle carte da giocare, delle frasi da dire, delle promesse da fare che riportino la situazione entro un ordine premeditato.
Ma quali sono queste carte e queste frasi?

Deve agire in questi casi la profonda presunzione maschile di saper dire frasi che l’altra dovrà accettare per forza; di enunciare cioè parole capaci di rasserenare e rinvigorire un sentimento che si è nel frattempo perso.
Deve, cioè, agire la presunzione che la strategia del discorso e l’ordine politico del discorso possono riportare la donna nel controllo dell’uomo, come se lei non potesse essere ritenuta, a pieno titolo, capace di decisioni o come se lei non sia considerata capace di calcolare tutte le conseguenze del suo agire.

Riportata sulla corretta via del corretto pensiero la donna/compagna comprenderà che l’unico orizzonte per lei sensato è quello di riaffidarsi a lui.
Quando questa convinzione è scalfita e messa in scacco, quell’uomo non sa trovare altro strumento che ricorrere alla sua primordiale violenza, una violenza che ritiene l’altro un subalterno, un sottoposto, un arreso per timore.
Questa è una traccia, appena minimale di un lavoro che noi uomini insieme con le donne dovremmo saper affrontare.

Solo con il racconto delle nostre frustrazioni e con l’esplicitazione delle nostre sconfitte, potremo aiutarci a capire, a essere capiti e a generare un’attenzione globale a queste realtà, un’attenzione che consenta alle giovani generazioni una relazione con i sentimenti più piena e matura.

Solo raccontando e rendendo esplicite le frustrazioni, anche di quegli uomini che si sentono esenti dalla violenza, potremo depurarci dalla nostra tendenza a essere complici, dalla nostra tentazione quasi a giustificare quella violenza, dalla nostra vigliacca indifferenza che vorrebbe confinare, quella violenza, in uno spazio privato in cui non c’è data la possibilità di intervenire.

Quello spazio privato in cui, evidentemente, la presenza della violenza è ritenuta come quasi normale, se non necessaria. Uno spazio privato che, letto come un regno sacro di qualcuno, risulta essere uno spazio in cui non far entrare la libertà.

I segnali ci sono, e come ci insegna anche la cronaca recente, anche i fatti e gli atti ci sono. Questa indifferenza che, come dicevamo sconfina nella complicità, almeno psicologica o culturale, è il segno più nefasto.

La nostra indifferenza si tramuta in una possibile complicità, perché quelli non sono fatti nostri, non sono fatti della scena sociale, ma sono comodamente confinati in una storia d’amore che d’amore non ha davvero nulla.

Questo testo è già apparso con una diversa titolazione su www.mentinfuga.com

TAG: dialogo fra i sessi, diritti delle donne, femminicidio, uomini violenti, violenza di genere, Violenza sulle donne
CAT: Media

Un commento

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  1. raffaele-pisani 8 anni fa

    Per esorcizzare in qualche modo questo bruttissimo periodo di violenze sulle donne, mi permetto inserire nei commenti questa “lettera d’amore e di gratitudine” che ho scritto a mia moglie in occasione della festività di San Valentino dello scorso 14 febbraio. Sono soltanto un vecchio scugnizzo nato settantacinque anni fa in un vicolo di Napoli, e quel vicolo e le strade di Napoli e di Afragola – dove ho vissuto per sette anni – sono state la mia vera scuola e la mia vera famiglia. Le cose che scrivo me le detta il cuore direttamente, questo per ribadire a chi avrà la bontà di leggermi, che non sono uno scrittore, sono soltanto un appassionato della poesia napoletana.
    Poiché da sempre credo che l’amore, in senso lato, sia l’humus in cui possono germogliare i migliori sentimenti di pace e condivisione, e nello specifico l’amore fra due persone sia capace di diffondere attorno a sé gioia e armonia vorrei condividere con con tutte le buone persone che sanno amare questo mio “atto d’amore”. Sono parole semplici con le quali ribadisco a Francesca le emozioni che continuo a provare per lei e quanto le sono grato per tutto ciò che mi ha dato e continua a darmi. Ed è appunto in nome dell’amore che dedico questa “lettera” anche a tutte le coppie dell’universo con un mondo di auguri di ogni bene.
    Cari e grati saluti, Raffaele ( raffaelepisani41@yahoo.it )

    Lettera d’amore e di gratitudine a mia moglie

    Cara Francesca,
    un’altra lettera oggi ti scrivo, oggi, a settantacinque anni compiuti, per dirti ancora che ti amo e per dichiararti tutta la mia gratitudine. Sì, ti amo come ho iniziato ad amarti da quella “mattina incantata” del 23 maggio 1981 regalatami, finalmente, da un miracolo che non avevo mai smesso di invocare, che si è realizzato con te e che ci ha stretti l’uno all’altra spalancandoci la grande porta dell’amore. Da allora viviamo una favola che continua a regalarci la tenerezza delle sensazioni di quei primi giorni avvolti da qualcosa di magico difficilmente descrivibile a parole, perlomeno con le parole del mio cuore di vecchio scugnizzo nato e cresciuto nei vicoli e nelle strade di Napoli e di Afragola che sono state la mia vera scuola. Ti amo, Francesca, per le lacrime che mi hai asciugato con i tuoi baci e le tue carezze quella sera del 29 giugno dell’81. Ti amo, Francesca, perché mi hai liberato dall’oscurità che avvolgeva e soffocava i miei pensieri, le mie speranze, i miei sogni. Ti amo perché mi hai aiutato a saper meglio discernere i valori veri della vita dalle false conquiste, il canto dell’usignolo dal gracchiare dei corvi, la comprensione dall’intolleranza, l’eleganza dalla volgarità, l’essenziale dal superfluo, l’umiltà dalla presunzione. Ti amo per la serenità, la sicurezza e il calore che mi regali. Ti amo per gli slanci improvvisi di affetto con cui mi sorprendi quando a volte sono assorto e assente, riaccendendo così quella fiammella che reciprocamente non vogliamo che si affievolisca. Ti amo perché finalmente in te ho trovato la mia casa e la mia famiglia. Ti amo per la dolcezza del nostro tenerci per mano; per la semplicità del nostro vivere quotidiano che ci fa apprezzare e godere le piccole gioie. Ti amo, Francesca, perché ancora oggi, a settantacinque anni suonati, mi fai sentire come lo studentello esultante per la conquista della sua prima fidanzatina e che trova ancora assieme a te l’entusiasmo di cantare, a voce spiegata, il nostro appassionato e gioioso inno all’amore. Ti amo per la generosità che ti porta a considerarmi addirittura un poeta quando sai ascoltare per l’ennesima volta, con interesse, quello che il mio cuore riesce ad esternare e fissare sulla carta. Ti amo perché ti vedo ancora ridere alla vecchia barzelletta raccontata agli amici come se l’ascoltassi per la prima volta. Ti amo perché sai guardare con indulgenza alle mie debolezze portandomi – senza far vedere – a considerarle come gradini per crescere. Ti amo, Francesca, per tutto ciò che mi dai, ma ti amo sopra ogni cosa perché mi hai fatto ritrovare il mio cuore bambino che le tristi vicende della vita mi avevano rubato e poi gettato via, quel cuore bambino che era tutta la ricchezza che avevo. Tu lo hai raccolto con delicatezza, lo hai curato e guarito con la purezza dei tuoi sentimenti, lo hai riempito del tuo amore e me lo hai ridato. Ed è stato così che dal 23 maggio del 1981 quel cuore bambino ha riportato nei miei occhi la riscoperta dell’emozione di una meraviglia sempre nuova, quel cuore che è tornato a farmi sognare e volare, assieme a te!
    Il tuo Raffaele

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