Il giornalismo non urlato tira sul web? Pare di sì

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4 Gennaio 2016

Al numero 22 di Old Queen Street, a Londra, possono permettersi di stilare la lista dei famosi buoni propositi per il nuovo anno: a quell’indirizzo ha sede la redazione dello Spectator, settimanale politico e culturale conservatore che viene stampato dal 1828 e che pare goda di ottima forma ancora adesso, nell’epoca del giornalismo multimediale e legato al pianeta dei social network.

Il 2015 per lo Spectator ha infatti confermato una tendenza positiva, come ha raccontato il direttore Fraser Nelson: quasi 61.000.000 di pagine visualizzate e 20.000.000 di utenti per il sito, segnando una crescita costante dal 2012, quando i numeri erano in flessione in seguito all’introduzione di un paywall completo. Poi il compito di gestire il settore web è stato affidato a Sebastian Payne, il metodo di pagamento è stato modificato, subentrando solo dopo un certo numero di articoli consultati, e i numeri sono tornati a crescere.

Il risultato deve aver colpito anche quelli del Financial Times, che hanno assunto Payne affidandogli il ruolo di digital comment editor, con l’intenzione di inserire video e audio per quel settore on line del giornale della City. La stessa cosa, d’altronde, è andata in scena proprio allo Spectator, con l’introduzione del blog Coffee House e di contenuti podcast con la rubrica The View from 22.

Dal web alla carta: nella prima metà del 2015 la circolazione dello Spectator ha continuato ad allargarsi, per un totale di 62.718 lettori paganti (55.165 per l’edizione stampata, 7.753 per quella digitale), lasciando intendere alla direzione del settimanale che è possibile tornare a raggiungere il picco registrato nel 2008 di 76.952 copie: da allora la diffusione era calata (54.000 nel 2013), per ripigliarsi in seguito, come accaduto al sito.

Cifre di nicchia, se paragonate a quelle dei colossi News Corp., Condé Nast & Co., ma dopo tutto anche gli obiettivi sono diversi: lo Spectator è un magazine agile, snello, con poca pubblicità e senza fronzoli, le pagine sono interamente occupate da articoli, le foto restano concentrate nella sezione culturale per accompagnare le recensioni di libri, spettacoli e rappresentazioni teatrali.

A Nelson non dispiace sporcarsi le mani ricordando nei suoi interventi le promozioni attive per diventare un fedele lettore del suo prodotto, ma ovviamente non basta per venderlo. Come ci sono riusciti al 22 di Old Queen Street?

Hanno proseguito sulla linea classica del settimanale, proponendo contenuti di qualità e approfondimenti (dalla Libia alla crisi migratoria, dal futuro del partito laburista al referendum sulla permanenza nell’Unione europea, dalla spesa sanitaria ai tagli alla difesa), aiutandosi con firme diverse tra loro nel panorama editoriale britannico: se per esempio tra i collaboratori fissi compare Charles Moore, ex assistente e biografo di Margaret Thatcher, ecco che tra gli argomenti dello scorso anno che più hanno acceso gli animi (e raccolto lettori ) finisce tra i primi cinque posti in classifica la battaglia per la libertà di parola all’interno delle università britanniche, dove il pensiero politicamente corretto sta diventando sempre più invadente, descritta in prima persona da Brendan O’Neill, direttore libertario-marxista e repubblicano del portale spiked!.

Nel 2015 c’è stata anche l’onda da cavalcare delle elezioni generali, con la vittoria a piene mani del leader conservatore David Cameron al quale allo Spectator riservano sempre un’intervista sotto Natale, dato che in questo periodo sono tutti più buoni, pure loro – salvo poi tornare prontamente a fargli le pulci.

Chissà poi se in Italia gli addetti ai lavori sapranno guardare oltre il totem The Guardian.

TAG: fraser nelson, sebastian payne, the spectator
CAT: Media

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