Raccontarsi l’aborto: l’ITG alla 22esima settimana #shoutyourabortion

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27 Settembre 2015

#shoutyourabortion è una campagna di condivisione di storie di donne alle quali nella vita è capitato di dover abortire.

#shoutyourabortion dice “grida il tuo aborto, raccontalo a voce altra, non vergognartene”: è una protesta virale alla proposta alla Camera Usa di tagliare i fondi federali ai centri (i Planned Parenthood) che praticano l’interruzione di gravidanza (circa il 68% del 1,5 milioni di aborti praticati ogni anno negli Stati Uniti), ma che si occupano anche di educazione alla contraccezione, diagnosi e accompagnamento per il cancro al seno, e prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili.

Negli Stati Uniti i Planned Parenthood sono dislocati in 59 sedi che gestiscono 700 centri: l’operazione prevista taglierebbe i finanziamenti federali di un terzo (circa 450 milioni di dollari) bloccando, parzialmente o totalmente, l’accesso alle cure a circa 650mila donne.

L’hashtag #shoutyourabortion creato da tre donne, Lindy West, Amelia Bonow e Kimberly Morrison, lo scorso 19 settembre è diventato un trend su Twitter e ha raccolto centinaia di testimonianze di persone che raccontano l’esperienza e le sue conseguenze: senza vergogna, senza doverlo dire sottovoce. Come è nato l’hashtag e il movimento lo racconta la stessa Amelia Bonow in questa tribuna su Salon (c’è anche la ricostruzione di BuzzFeed).

Naturalmente non sono mancate le polemiche: i ProLife, che tra i movimenti conservatori sono a mio avviso i più ingegnosi, hanno creato hashtag di risposta, tra cui #shoutyouradoption: il racconto dei bambini che, se fossero vivi, avrebbero potuto raccontare la loro esperienza di adozione, oppure testimonianze di chi è stato adottato.

Nel frattempo è #shoutyourabortion anche diventato un account Twitter autonomo.

 

Tra i racconti pubblicati sotto #shoutyourabortion, tutti più o meno interessanti, e tutti più o meno simili, di uno in particolare vorrei parlare: è la storia di Lindsey Averill, regista, attivista femminista e creatrice di Femminst Cupcake, un blog che si occupa di analisi delle rappresentazioni sessiste o razziste nella cultura popolare.

Lindsey Averill racconta un aborto, che sì ha scelto, ma che a differenze delle altre storie, non ha voluto: un’interruzione alla 22esima settimana e mezzo, ovvero tra i cinque e i sei mesi di gravidanza.

All’ecografia tra la 21 e la 22esima settimana a Lindsey e al marito Randy è stato detto che la bambina che aspettavano aveva una grave malformazione: il cervello non era completamente formato ed era presente un problema al cuore. «Tutte le persone con le quali ho parlato erano d’accordo. Nessuno ha potuto o voluto darmi dettagli, ma tutti mi hanno detto che il mio bambino – il bambino che sentivo muoversi nella mia pancia – non sarebbe stato nemmeno lontanamente bene ».

Per questo, con il marito, hanno deciso per una interruzione della gravidanza: non potendola praticare in Texas, dove Lindsay e il marito risiedono perché la legge permette l’Itg fino alla 20esima settimana, l’intervento è stato fatto a New York, dove è possibile fino alla 24esima.

«Alla mia bambina mancava una parte di cervello, il suo cuore non funzionava, non aveva il naso e la vita dopo il parto sarebbe stata breve e dolorosa. Ho abortito la mia bambina nel dolore, il suo futuro dolore il mio, quello di mio marito, il dolore delle persone che ci amano. L’ho abortita perché se avessi portato a termine la gravidanza lei sarebbe morta a un certo punto, e si sarebbe portata via con sé la mia salute mentale. Ho abortito perché era la scelta migliore. E per quanto mi riguarda credo fosse la sola scelta».

Lindsey è sempre stata una pro-choice riguardo all’aborto, meno certa invece, per quanto riguardava gli aborti terapeutici: dopo questa esperienza, invece, si dice convita della possibilità, per chi decida di affrontare questo momento, dell’esistenza della libertà di scelta.

Perché questa storia è importante? Perché ci sarebbe bisogno di condividere storie come queste, perché le donne che praticano l’Itg (negli Usa l’1% degli aborti praticati ogni anno) hanno un vissuto ancora più nascosto e doloroso.

L’interruzione terapeutica di gravidanza (ITG) in Italia è consentita dalla Legge 194, che permette un aborto oltre i 90 giorni ed entro la ventiduesima settimana. L’ITG è possibile se la gravidanza o il parto rappresentano un pericolo per la donna o se ci sono anomalie o malformazioni nel feto che mettano in pericolo la salute psichica o fisica della madre.

Questo sulla carta: poi le storie invece sono del tenore di questa, capitata ad una coppia marchigiana, oppure di questa: diritti negati, silenzi, giudizi e la diffcoltà di trovare una struttura che pratichi l’intervento. O il viaggio all’estero, quando in Italia non è più possibile.

TAG: aborto, aborto terapeutico, Stati Uniti
CAT: Media, Medicina

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