I giorni passano e il conflitto avanza. Non solo tra Gaza e Israele, ma anche, e come non succedeva dai tempi della Seconda Intifada, all’interno dei confini dello Stato, dove i linciaggi, da entrambe le parti coinvolte, non fanno che aumentare, parallelamente agli attacchi missilistici.
Più passano i giorni, più sembra di essere tornati ai tempi dei Balcani, con un’escalation di violenza spesso alimentata dalla sua stessa rappresentazione mediatica, oggi accelerata più che mai tramite l’effetto volano dei social media, primo fra tutti TikTok, che è diventato il megafono degli istigatori all’odio.
Tutto è cominciato con l’inizio del Ramadan, quando, a causa del Covid, la polizia israeliana impone rigide restrizioni per evitare assembramenti nei luoghi sacri ai musulmani. Fin da subito emerge l’asimmetria rispetto a come, tali precauzioni, non siano state esercitate altrettanto nel corso di altre cerimonie religiose ebraiche. Cominciano gli scontri, assolutamente prevedibili, e maldestramente gestiti da parte delle forze dell’ordine israeliane, del tutto impreparate a causa di un totale vuoto ai vertici.
Proprio in quei giorni, infatti, il fronte opposto a quello del premier uscente Benjamin Netanyahu, sta cercando di costruire il cosiddetto “governo del cambiamento”: avrebbe potuto portare a un vero cambio di paradigma culturale, grazie agli sforzi del centrista Yair Lapid nel far sedere allo stesso tavolo la destra sionista di Naftali Bennett e il neo- partito islamico di Mansour Abbas. Da oltre due anni, nel corso dei quali gli israeliani sono stati chiamati a votare giá quattro volte, nessun partito è riuscito a mettere assieme una colazione, salvo, lo scorso anno, la breve parentesi di governo di unità nazionale (dovuta all’emergenza sanitaria) che non è sopravvissuto sei mesi.
Ma il parlamento israeliano non è il solo privo di esecutivo. Tra i palestinesi, che attendono le elezioni dal 2006, è da 15 anni che non fa che replicarsi la stessa situazione di paralisi. Abu Mazen aveva indetto le elezioni a maggio, solo per mantenere sane le proprie relazioni diplomatiche con Europa e Stati Uniti, per poi rinfacciare agli israeliani di non aver concesso l’apertura dei seggi elettorali a Gerusalemme Est, senza, di fatto, aver mai né chiesto (né tantomeno ottenuto) un rifiuto ufficiale. Posticipandole a data mai pervenuta, spera di assicurarsi il suo ruolo di leader, ormai del tutto delegittimato, a causa delle fratture interne al spartito.
Arriva il 9 Maggio con il Jerusalem Day, giorno sacro per il popolo ebraico, e a questo punto la Cittá Santa, da sempre luogo conteso da entrambe le religioni, diventa il terreno di combattimento su cui esercitare gli interessi politici delle due parti in causa.
Da un lato Hamas, che non aspettava occasione migliore per accelerare l’escalation di violenza e in questo modo sottolineare la propria egemonia sia nell’Enclave che nei Territori, proprio nel momento in cui il presidente dell’ANP, avendo cancellato la corsa alle urne, dimostra la sua debolezza. Attaccando Israele, l’organizzazione terroristica cerca di dimostrare che, a differenza dell’immobilismo di Fatah, sono disposti a tutto, persino a bersagliare (incidentalmente) i propri civili, pur di lottare per il popolo intero, sia nella Striscia che nel West Bank.
Dall’altro King Bibi, che rischia in un colpo solo di perdere il trono e, in tal caso, anche il carcere, a causa dei tre processi (per corruzione, frode e abuso di ufficio) che gli pendono sulla testa come una spada di Damocle. Trova in questo modo la formula perfetta per far saltare il tanto agognato governo, a causa dei conflitti interni al Paese: se ebrei e musulmani si incendiano le case a vicenda, tanto meno potranno sedersi l’uno accanto agli altri alla Knesset.
Eppure, stando a numerose fonti locali, nelle cosiddette “cittá miste” la maggior parte degli aizzatori alla violenza non sono i residenti, bensí cellule di estremisti giunte da villaggi arabi e da colonie israeliane, che hanno scelto di trasformare, di proposito, questi centri – simbolo di convivenza – in teatri dell’odio.
Quello a cui stiamo assistendo in questo giorni non è, come è stato definito spesso, e a sproposito, dai media (sia locali che internazionali) una “guerra civile”. Né si stratta di un conflitto religioso, come non lo era durante la Guerra dei Balcani. Bensí di un conflitto tra villaggi e città, tra multiculturalismo, tipico delle grandi cittá di tutto il mondo, e campanilismi, di fanatici che strumentalizzano la religione per i propri interessi politici.
Proprio come la Sarajevo degli anni Novanta, in preda ai cecchini in quanto simbolo internazionale di convivenza, le “città miste” israeliane vengono oggi prese d’assalto per quello che rappresentano, in modo da legittimare la produzione del discorso manicheo tipico di leader scellerati, e ormai privi di consenso, come, in quegli anni, fu Slobodan Milosevic.
E, proprio come allora, anche i media non fanno che cadere nella trappola di questi criminali di guerra, attraverso una “balcanizzazione” del conflitto, che non rappresenta affatto i valori di un Paese in cui tutti i giorni medici israeliani, di tutte le fedi, non fanno che combattere, uniti, per salvare vite umane, senza guardare la loro appartenenza etnica.
Cosí, mentre martedí scorso Hamas attacca il centro di Israele con oltre un migliaio di missili, un gruppo di delinquenti musulmani da fuoco alle mura di Uri Buri, ristorante storico, nel cuore di Acri, conosciuto in patria e all’estero per l’ottimo pesce, acquistato quotidianamente dai pescatori arabi locali dal proprietario, di fede ebraica, Uri Jeremias: un’istituzione in tutto il Paese. Bruciandolo, insieme alle sue mura, viene deliberatamente distrutto anche il simbolo di ciò che aveva sempre fatto di questo luogo, e di Acri, un modello di convivenza.
Quando il giorno dopo hanno chiesto a Uri cosa avesse provato di fronte a questo episodio di odio ha risposto: “non so chi abbia appiccato il fuoco, ma so chi mi ha aiutato a spegnerlo: erano tutti cittadini arabi. Gli estremisti sono una minoranza. La maggioranza degli israeliani e dei palestinesi vogliono solo vivere in pace”.
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