Domenica sera, dopo 12 anni consecutivi al governo, il più longevo della storia di Israele, si è chiusa, almeno per il momento, l’era Netanyahu. Tecnicamente, l’ha chiusa lui, dopo aver raggiunto l’apice di un operato, principalmente basato sulla strategia del “dividi ed impera” che, nel lungo periodo, ha causato un, nemmeno troppo imprevisto, effetto boomerang.
Tutto è cominciato nel 2019 quando Avigdor Lieberman, il leader di origine sovietica della destra nazionalista laica Yisrael Beiteinu, esausto da anni di sotterfugi da parte del suo ex-alleato, decide di abbandonare la maggioranza per richiamare i cittadini alle urne. Da allora di tornate elettorali ce ne sono state 4, tutte finite alla pari, specchio di un paese diviso in due. Non tra destra e sinistra, ma tra pro e contro Benjamin Netanyahu.
Nonostante il primo eclatante segnale di scontento tra le sue fila, King Bibi, per cercare di assicurarsi il trono, e con esso anche evitare i tre processi – per corruzione, frode ed abuso di ufficio – che lo attendono da ormai due anni, ha continuato a puntare sulla frammentazione politica, creando fratture persino all’interno del suo Likud, che, quest’anno, hanno portato Gideon Saar alla scissione e a fondare Nuova Speranza.
Ma la mossa che, alla fine, l’ha obbligato a cedere lo scettro al suo ex-delfino è stato proprio il tentativo di isolarlo fino a quando Naftali Bennett, leader del partito nazionalista sionista Yamina, ha trovato sostegno tra la destra di chi da Bibi si era allontanato, al punto di unirsi al centro con Yesh Atid di Yair Lapid, vero artefice di questa macchinosa coalizione, Blu Bianco, dell’ex Capo di Stato Maggiore Benny Gantz e, a sinistra, con i Laburisti di Merav Micaheli e Meretz di Nitzan Horowitz.
Ma ancora, per Bennett, i numeri non sarebbero stati sufficienti per raggiungere i 61 seggi (su 120) fondamentali per creare una coalizione. Questi numeri, sempre Netanyahu, come un prestigiatore, era riuscito a tirarli fuori dal cappello a ridosso delle ultime elezioni di marzo, spaccando anche la Lista Araba Unita e facendo nascere Raam, il neo-partito islamico guidato da Mansour Abbas, che gli avrebbe consentito di raggiungere i seggi necessari per governare. Non aveva fatto i conti, però, con un altro prodotto dalle sue stesse mani: il Partito Religioso Sionista, frutto dell’unione tra Betzalel Smotrich e Itamar Ben Gvir che, mai, si sarebbero seduti al tavolo con un partito arabo.
Accade così che questo governo di larghe intese, che abbraccia otto partiti dagli orientamenti più disparati, che includono, per la prima volta, anche la voce degli arabi, e con la più altra percentuale di parlamentari donne (perché i partiti ultraortodossi – che non accettano deputate donne per statuto – nel frattempo sono finiti, dopo decenni, all’opposizione) sia stato, di fatto, messo a punto dall’artefice della sua auto-distruzione.
Perché mentre Netanyahu lavorava per raggiungere questo perverso autogoal, Lapid costruiva le fondamenta di questa complessa architettura a doppio premierato, rinunciando al primo turno pur di garantirsi l’appoggio, fondamentale, del kingmaker Bennett, che sarà primo ministro fino ad agosto 2023 per poi lasciare la staffetta all’ingegnere di questo capolavoro politico. Alcuni lo definiscono un castello di carte, destinato a crollare da un momento all’altro poiché privo di un vero minimo comun denominatore, salvo il nemico comune.
Eppure, qualcosa in comune i parlamentari che hanno accettato di unirsi in questo esecutivo dalle “convergenze parallele” ce l’hanno, e lo hanno espresso chiaramente domenica, subito dopo il giuramento: “Questo governo è stato reso possibile grazie alla moderazione e dell’operatività. Solo l’impegno sul lavoro ci potrà tenere uniti e al riparo da ogni ideologia. Da domani mattina le riunioni di gabinetto cominceranno sempre puntuali”. Sono queste le parole del neo-premier, ex business man dell’high-tech, Naftali Bennett, che ha inaugurato il trentaseiesimo esecutivo israeliano, di cui sarà premier – il tredicesimo, ma il primo nella storia di Israele ad indossare la kippah – a rotazione con il neo-alleato, e meticoloso ingegnere del “blocco del cambiamento”, Yair Lapid: “Quest’unione è il risultato di una reciproca amicizia e fiducia. – ha commentato il leader centrista – Amicizia e fiducia saranno il collante che garantiranno il futuro di questo esecutivo”.
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