“Velvet” ovvero l’americanizzazione della Spagna ai tempi del Caudillo
Vedo ogni tanto su Rai 1 la serie televisiva “Velvet”, parolina inglese che vuol dire “velluto”. Sin dal primo fotogramma, dalla sigla di apertura con un accattivante motivetto in inglese, il fraintendimento sulla reale ambientazione dello sceneggiato è plateale. E sei convinto di trovarti in USA in epoca “Grease” ossia gli anni Cinquanta. Le canzoni di sottofondo, morbide come gli abiti dei protagonisti sempre in tiro fino al punto di cedere agli amplessi più caliendi quasi sempre in smoking lui e in taffettà lei, sono canticchiate nei momenti clou dai più famosi crooner dell’epoca (Frank Sinatra, Harry Belafonte, Nat King Cole). Ma i personaggi si chiamano tra loro sorprendentemente “don” e “dona”, e i protagonisti principali Ana e Alberto, nei loro dialoghi, non parlano di Los Angeles o di Santa Monica, ma di Valladolid e Madrid, talché comprendi subito invece che sono degli spagnoli che vogliono fare gli americani.
“Velvet” si svolge alla fine degli anni ’50 in una Galleria dove si vendono vestiti di alta moda, “una scelta – avverte il sito di ‘TVSorrisi e canzoni’ – dettata non solo dal desiderio di dare un tocco glamour alla storia, ma anche quello di rendere omaggio a un momento fondamentale della storia della moda, ovvero quello che porterà alla nascita del prêt-à-porter (moda pronta, ndr)”. Sono eventi che in quegli anni si svolgevano in verità piuttosto in Francia (Galeries Lafayette) , ma la serie guarda, in un doppio travestimento, agli stilemi e ai codici visivi americani raccontando una storia che in quegli anni solo tra i boulevard e l’Opéra poteva svolgersi.
Era così la Spagna degli anni Cinquanta? Anche se non ha alcuna importanza stabilirlo ai fini della decrittazione della fiction (che tende platealmente alla favola e all’imbonimento) qualche considerazione va fatta. L’unica produzione cinematografica che in quegli anni la Spagna, sotto la cupa dittatura del Caudillo Francisco Franco, esportava era quella iper-cattolica del bambino “Marcelino” della serie “Marcelino pan y vino”. Per vedere qualcosa di glamour si dovette attendere gli anni Sessanta e la serie cinematografica della piccola “Marisol” ambientata perlopiù a Madrid in ambienti borghesi, e sempre in tema di piccoli talenti, il cantante dalla voce di usignolo “Joselito”. Furono film che mi sciroppai qualche volta perché ebbero un certo successo anche in Italia, specie negli oratori cattolici.
Nei ricordi di Lucia Bosè, la bella milanese che era andata a vivere in Spagna proprio in quegli anni Cinquanta per amore del torero Domenguin, in verità trapela piuttosto una Spagna arretratissima ove era difficile trovare un parrucchiere accettabile e le donne ancora non si depilavano, tipo la baffuta “Carmencita mi amor” del caffè Paulista nei caroselli di una volta.
Altro che “Velvet”.
Perché “Velvet” falsifica così tanto il più elementare codice della verisimiglianza? Ma per la semplice ragione che gioca sul “codice gnomico” condiviso, ossia quella serie di segni (dalle canzoni e agli abiti, ai dialoghi e a certa recitazione tipicamente yankee) che gli americani hanno imposto al mondo, e che tutti noi decrittiamo facilmente, anche se non corrispondono filologicamente per nulla alla verità effettuale, ma solo a quella della favola dove non si guarda troppo per il sottile. Gli anni Cinquanta al cinema sono così, che ti trovi a Piazza Armerina, a Scanzorosciate o a Madrid: sotto il segno di “Grease” o “La gatta sul tetto che scotta” .
Ma c’è forse un’altra ragione e devo perciò triangolare con Federico Zeri. È la vecchia tendenza all’elusione della realtà che il sommo critico d’arte individuò, riferita alla pittura e alla cultura italiana in genere, in quel piccolo capolavoro che è “La percezione visiva dell’Italia e degli italiani” (Storia d’Italia, Einaudi) dove si può leggere che nella Firenze del ‘400 la pittura italiana abbandona il ritratto dal vero, la «percezione sincera e obiettiva della realtà urbana», i panni stesi ritratti da Masolino da Panicale nella Cappella Brancacci, a favore di una rappresentazione che «si esprime in modi elusivi, evasivi e (…) supremamente stylish». Sarà la scelta dell’idealismo ornato di Botticelli e a seguire anche dello stesso Raffaello.
Ecco, come la nostra pittura, ogni rappresentazione si trova ad operare ad un certo punto una ferale scelta: presa in carico o elusione della realtà? Peso o “leggerezza”? Narrazione come indagine seria o ludo combinatorio? Attenzione ai particolari inesauribili della vita quotidiana o macchina delle narrazioni che genera infiniti possibili narrativi?
“Velvet” è nel secondo corno del dilemma, e con la serie televisiva tutte le donne (ben il 75 % dei telespettatori) che hanno deciso la via di fuga del sogno, porque la vida es sueño come titolava “don” Calderon de la Barca in una sua pièce, anzi fiction.
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