Incontro con Fabio Vacchi al Benedetto Marcello di Venezia
Quando cominciai a insegnare nei conservatori italiani, quasi cinquant’anni fa, di musica contemporanea se ne faceva poca, e ancora meno se ne insegnava. Raramente se ne parlava. Meno che mai nei corsi di storia della musica. La prova scritta di storia della musica per gli studenti di composizione consisteva, secondo un programma ministeriale, che già io non osservavo, e oggi da molti disatteso, nell’analisi di una partitura contemporanea. Un anno, un mio collega scelse, come pagina per l’analisi da fare analizzare a un suo studente, l’introduzione del terzo atto di Tosca. Contemporanea una pagina di 80 anni prima! In un altro conservatorio il docente di composizione ebbe a ridire sull’elaborato di un allievo – si trattava di variazioni – perché aveva usato ritmi jazzistici. “Queste porcherie in un conservatorio non si possono sentire”, urlò. Obiettai che avrebbe bocciato Ravel. Oggi in quel conservatorio c’è una cattedra di jazz. Ma i tempi, per fortuna sono cambiati. Ricordo che una collega mi accolse, appena giunto nella mia nuova sede, chiedendomi: “Ma ti piace così tanto la musica di oggi?” Risposi: è la musica del mio tempo e voglio conoscere che musica si fa nel mio tempo. Mica tutta la musica del passato è una meraviglia. Oggi l’ascoltiamo tutta.
I tempi, però, sono davvero cambiati. E non solo perché, prima di andare in pensione, chiusi il mio insegnamento con un corso, al Biennio, sul Pli selon pli di Boulez, Chiedevo agli allievi di eseguire, anche, all’esame, una pagina o di Boulez o di altro compositore contemporaneo. Gli allievi ne furono entusiasti. Due organisti mi suonarono Volumina di Ligeti. Un contrabbassista mi disse che non trovava niente per il suo strumento (in realtà se cercava di più avrebbe trovato) e allora gli proposi d’improvvisare una variazione in stile jazzistico sulla serie del Pli selon pli. Ne fece una prova mirabile. Questo accadeva al Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia.
E proprio al Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia, si organizzano da qualche anno incontri con compositori di oggi, che spiegano la loro musica, dialogano con storici e critici, discutono con gli studenti. Sono stato chiamato a dialogare con Fabio Vacchi. E insieme a me c’era anche Mario Messinis. Gli incontri sono organizzati da Federica Lotti, bravissima flautista, e docente di flauto nel Benedetto Marcello. Peccato che l’affluenza non fosse esaltante. Come se mancasse la curiosità di confrontarsi con un compositore. Ma il dibattito è stato ugualmente vivace. Si sono, anzi, quasi scomodati i massimi sistemi. Il compositore di oggi non ha modelli condivisi che lo guidino, il modello deve costruirselo da sé. Le avanguardie del secondo novecento, per alcuni, avrebbero costruito modelli improponibili, solipsistici. Vacchi sostiene che bisogna rispettare i limiti fisiologici della percezione.
Qualcuno si è alzato urlando che non esistono limiti. Ma il problema c’è. La musica che voglia continuare a comunicare qualche limite dovrà imporselo. Il problema è vasto e complesso. Esistono compositori inclusivi e compositori esclusivi. Chi può dire se ciò che oggi sembra un limite domani non lo sarà? E chi ha detto che tutto debba essere percepibile? E’ percepibile il retrogado di un soggetto di fuga? Forse sì forse no. E’ percepibile la talea di un motetto (andrebbe scritto così, con una sola t) isoritmico dell’Ars Nova francese (XIV sec.)? Fino a che punto può spingersi l’intellettualismo della scrittura? E fino a che punto la ricerca della gradevolezza? Ma sono criteri unici, inconfutabili, intellettualismo e gradevolezza?
L’errore delle avanguardie, o meglio degli epigoni ossessionati dall’osservanza di criteri e di regole, sta nel supporre un modello unico di musica d’oggi, e tutti gli altri, considerarli scadenti, sorpassati, “reazionari”. Ma c’è un progresso in musica? E nelle arti? O non si confonde il naturale evolversi e mutare degli stili con un progresso dal bene al meglio? Quante Cassandre dell’avanguardia hanno buttato anatemi su Richard Strauss, Benjamin Britten, Dmitrij Šostakovič? E quanti, dall’altra sponda, hanno tuonato contro l’inudibilità di un Boulez, di un Nono, di un Birtwistle? Qualcuno perfino dichiarando che quella non è musica?
Fabio Vacchi ha fatto ascoltare le registrazioni di alcune composizioni. La volontà di catturare l’ascoltatore traspare evidente. Ma non per questo la scrittura sembra arrendersi a semplificazioni corrive. Anzi, l’elaborazione contrappuntistica appare sempre vigile e raffinatissima, così come l’attenzione al timbro strumentale che sappia meglio raffigurarla. Gli echi dell’amato Berg, sono evidenti, ma come un’ombra lontana, e non come un’esibita imitazione, se mai come una citazione. Si citano passi, ma si può citare anche un procedimento compositivo. Beethoven lo fa, per esempio, nella fuga handeliana che è lo svolgimento della penultima variazione Diabelli.
Il moderno si dice in molti modi, parafrasando la frase di Aristotele sull’essere. Fabio Vacchi è uno di questi. Ed è moderno il fascino che subisce dalle musiche etniche, della Grecia, del Medio Oriente. Della parola detta: molte sue pagine sono melologhi. Troppo di rado si riflette sul fatto che musica e linguaggio hanno in comune la stessa materia: il suono. L’indicibile, una volta espresso, non è più indicibile, ma detto. Eppure resta, in qualche modo, inespresso. Così accade anche con la musica. La sfida è di avanzare fino ai limiti del percepibile, del comprensibile, senza oltrepassarli. Oppure avventurarsi nel Mondo delle Idee. Come, nelle arti figurative, sembrano fare certe installazioni. Miguel Ángel Hernández vi ha costruito sopra un bellissimo romanzo, El instante de peligro. In esergo, una citazione da Benjamin: “Articular históricamente el pasado non significa conocerlo ‘como verdaderamente ha sido’. Significa apoderarse de un recuerdo tal como éste relampaguea en un instante de peligro”1
L’installazione è un’ombra proiettata su un muro in cui l’artista s’identifica.
All’incontro è seguito un concerto. Brani di Fabio Vacchi: Dai calanchi di Sabbiuno, Echi d’ombre, Respiri, Arietta “Pensiero non darti” dall’Opera Girotondo, 3 Post per Scarlatti, Da Luoghi immaginari: Settimino. A interpretarli Martina Pattarello e Chiara Delaini al flauto, Cristina Scapol al clarinetto basso, Matilde Berto al violino, Tazio Brunetta al violoncello, Leonardo Verona, Tommaso Boggian e Dario Falcone al pianoforte, Ernest Hamp al fagotto, Eiling Bencomo alla viola. Kiki Delli Santi, docente di percussioni, alla campana tubolare, la stessa Federica Lotti al flauto. Il gruppo dei bravi musicisti è diretto da Giovanni Mancuso. Bravissimi a dirigere e regolare tutto l’aparato tecnico ed elettronico Giovanni Dinello e Riccardo Sellan
Ci sarebbe da riflettere per ore. Questi sono solo spunti. Ed è sempre bello quando in una scuola pubblica si parla dell’oggi!
Lunedì 23 Aprile, Ore 15.30, l’incontro, 17.30 il concerto, nella Sala Concerti del Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia
1Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come veramente è stato”. Significa impossessarsi di un ricordo così come esso lampeggia in un istante di pericolo.
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