La permanenza del nuovo: vent’anni senza Luciano Berio

25 Maggio 2023

Luciano Berio muore il 27 maggio 2003. Chiude un secolo, nel quale è stato un protagonista. Dovunque abbia fatto un’incursione ha lasciato un segno, nella musica sinfonica, da camera, nella canzone e nel “Lied” (la lingua italiana ha declassato il temine un tempo nobile di canzone, e non ne ha ancora trovato ancora un altro per denotare il canto d’arte), nel teatro, nel singolo pezzo breve per strumento, un tempo si diceva foglio d’album. Ma anche nel dibattito culturale e politico del tempo. Il pezzo di musica lungo, dal Settecento in poi, era sonata, improvviso, fantasia. Berio lo chiama Sequenza, termine medievale che indicava l’inserimento di un canto nuovo sul corpo di un canto preesistente, al modo del tropo, ma con la particolarità di avere un andamento isoritmico costante: Dies Irae, Stabat Mater. Sul corpo della sequenza Berio poi aggiunge un ulteriore intervento che chiama Chemin, cammino. Una volta germinata un’idea musicale, Berio ne sviluppa molte opere diverse, tutte a partire da quella idea. E forse tutta la sua musica è un cammino che ripercorre la memoria della musica occidentale, canto popolare compreso: Questo vuol dire che … (Roma, Auditorio della RAI, Foro Italico, 1969). Testimone del proprio tempo, Berio è anche, in realtà, testimone della memoria dell’Occidente, la musica si fa specchio di un modo di vedere la realtà. Ricostruisce l’ultima sinfonia, la decima, incompiuta, di Schubert e intitola la ricostruzione, che sarebbe più proprio chiamare restituzione, Rendering. Intraducibile: rendendo? presentando? L’Oxford Dictionary scrive: “1. Give in return (thanks). 2. Give back. … 3. Pay (tribute etc)”. È tutto questo. Ma anche qualcosa di più. Come un archeologo, Berio non ricostruisce le parti mancanti, nei vuoti della partitura inserisce suoni arbitrari, estemporanei, che testimoniano appunto la presenza del vuoto. La colonna spezzata resta spezzata, non viene completata con materiale nuovo. Attualissimo, il messaggio di quest’idea della musica. Avanguardie e antiavanguardie si confrontano e, soprattutto, si combattono, a furia di reciproci anatemi denigratori: musica inesistente, musica sorpassata; musica cervellotica, musica sentimentale; le accuse meno offensive. Berio se ne trae fuori. Come prima di lui Stravinskij. Arzigogolare su un contrappunto complicatissimo di una serie inventata non gli pare in contraddizione con il piacere che può provocare all’ascolto, ma ancora più a suonarlo, un Intermezzo di Brahms o un madrigale di Monteverdi, e in questo caso unendosi con altri per cantarlo. Resta, comunque, che in ogni momento della storia anche la musica più radicale non può ignorare la musica che l’ha preceduta. Perfino nel nome la Nuova Musica non può cancellare la memoria dell’Ars Nova, la più vertiginosa Improvisation di Boulez il non meno vertiginoso rondel di Machaut “Ma fin est mon comencement”. Nel fauno di Mallarmé fa l’occhiolino un epigramma di Asclepiade.

Ebbene, a questa sorta di point de repère (titolo di un libro di Boulez) del Novecento, ch’è Luciano Berio, l’Accademia Filarmonica Romana ha dedicato l’omaggio di una serata di due concerti nella Sala Casella sulla Via Flaminia, a pochi metri da Piazza del Popolo, dove nella stessa chiesa Raffaello e Caravaggio si sfidano l’uno proponendo il ritorno (rendering, giving back) dell’antico l’altro voltando a quello stesso antico le spalle, ma senza tuttavia dimenticarne la lezione. Nel primo concerto, la violoncellista Elide Sulsenti ha eseguito, di Berio, la Sequenza XIV (l’ultima) per violoncello, del 2002, l’anno che precede la morte; e il brevissimo foglio d’album Les mots sont allés (Recitativo pour cello seul), del 1976-78. Nel secondo concerto Andrea Lucchesini, al pianoforte con pedale tonale, ha proposto, sempre di Berio, la Sequenza IV per pianoforte, del 1966, e Six Encores, brevi pezzi occasionali (ma Goethe sostiene che ogni grande poesia è poesia d’occasione) – il titolo significa “sei bis” – composti tra il 1965 e il 1990. Ha presentato, dottamente e piacevolmente, i solisti e le musiche, Angela Ida De Benedictis. C’è, in questa musica, oltre che la storia della musica europea, la storia degli interpreti della musica europea. Per esempio, dietro Les mots sont allés la figura del grande violoncellista russo Rostropovič, cui è dedicato (ma il vero dedicatario è Paul Sacher, dal cui nome, mi bemolle la do si mi re, è tratta la cellule musicale del pezzo). I brani occupano lo spazio di un tempo immenso, oltre quaranta anni. La scrittura di Berio si fa via via più scarna, più essenziale. Fino alla meraviglia dell’Encore intitolato Wasserklavier, tastiera-pianoforte d’acqua. La cellula musicale è tratta da un Intermezzo di Brahms, il secondo dell’op. 117, e dalla Fantasia in fa minore per pianoforte a quattro mani di Schubert, sovrapposte, mescolate. Berio definisce il carattere dell’intermezzo brahmsiano “una polifonia virtuale”. Significa che non c’è una voce principale, ma tutte si intrecciano in un “arabesco” meraviglioso, in cui l’intrico musicale si fa specchio dell’intrico mentale che lo costruisce e forse, anche, di un altro, inafferrabile, opaco, imprecisabile, intrico che definisce la vita di ciascuno. La filigrana degli intervalli brahmsiani si assottiglia in un’evocazione che appare come un fantasma. E dietro il fantasma brahmsiano compare quello schubertiano, come, chi sa, apparve a Schumann che se lo sentì dettare dentro in un sogno il tema sul quale compose le sue ultime variazioni. E a quelle ultime diede un seguito Brahms. Tutto questo, nel brano di Berio, non è esplicito, ma è sottinteso. Ecco, se nella poesia moderna – ma da quando moderna? da Callimaco? da Catullo? da Petrarca? da Shakespeare? da Verlaine? – se i poeti moderni amano citare e poi, sempre più spesso alludere, citare senza citare alla lettera il poeta amato, che cosa farà la musica “moderna”? se il finale di una sonata di Schubert (la maggiore) allude al finale di una sonata di Beethoven? se sempre a Beethoven rinvia la Fantasia di Schumann e a Schumann gli Intermezzi di Brahms? L’arabesco di questa polifonia virtuale si scioglie come la lana da un gomitolo, e ci penetra i nervi, ci abbandona al sortilegio di un canto che prelude al silenzio. Fuori di metafora, la fine della musica, la fine dell’arte, ogni volta minacciata quando sembra perduto il bandolo del passato, ecco che invece si realizza come un nuovo inizio, un riprendere fiato, tra le maglie di un contrappunto che dall’intonazione parigina del “viderunt omnes”, Magister Perotinus, ci perviene fino alle tessiture minime del contrappunto di un Ligeti, e, infine a questi fogli d’album di Berio che sembrano mossi dalla volontà di ricostruire una memoria di tutto il perduto, non solo musicale, che affligge la vita di ciascuno. Elide Sulsenti, giovanissima, se ne mostra già edotta, forse, chi sa, attraverso la voce dello strumento. O, più probabilmente, perché non si può suonare nessuno strumento – e nemmeno cantare con la propria voce – se non si è prima assimilata la musica dello strumento e acquisita nella voce l’esperienza di tutte le voci che l’hanno preceduta. Certo è che la musica fluisce, naturale, come se non richiedesse lo sforzo di un lungo studio. Il commiato di Boccherini da Madrid non è poi così lontano nel tempo. Lo stesso Berio ce lo ricorda. Lucchesini, la Sequenza, gli Encores li ha maturati dentro di sé negli anni. Trenta. E sembra averli trasfusi nelle dita delle mani come l’atto spontaneo di afferrare qualcosa. Scivola sui tasti, abbassa e toglie la mano dalla tastiera con l’estro perfino di un jazzista, se ne ha bisogno, ma mai le dita battono casuali o monotone, uguali, i tasti del pianoforte. Può così udirsi il miracolo, per esempio, del Luftklavier, il pianoforte dell’aria, quasi come se fosse un preludio di Debussy o una Rondeña di Albéniz. ma con uno stridio nuovo che l’allontana, lo avvolge di un’aura che ha la tensione del ricordo. Quanto alla Sequenza IV sembra riassumere in sé il carattere di una sonata, o, piuttosto, di una fantasia. E anche qui ritorniamo alle origini romantiche – non classiche – di questi termini. Forse vi si può percepire perfino un’eco della Deuxième Sonate di Boulez, ma solo un’eco rarefatta. Fu composta dopo la Sequenza III, per voce, dell’anno precedente, indimenticabile la performance di Cathy Berberian. Ma segue un percorso musicale diverso. Qui non è la voce umana a essere indagata, ma lo strumento, il pianoforte: c’è l’idea che ogni suono emesso rievochi la musica di un secolo. Ma tiriamo, finalmente, le somme. Oggi, guardata a distanza, la polemica ci sembra inutile, e soprattutto speciosa, non coglie il senso di ciò che vorrebbe o approvare o condannare. Che questi Encores siano diventati un classico con il quale si misurano oggi ormai molti pianisti, anche giovanissimi, è il segno di quanto questa musica abbia colto lo spirito del tempo. Tuonarvi contro, opporle un ritorno a più “comprensibili” (ma che cosa è comprensibile, della musica?), più udibili forme musicali, oppure proporla, invece, autoritariamente, come l’unica musica possibile, sono posizioni, entrambe, anacronistiche, che non tengono conto della molteplicità di soluzioni che la storia modella via via nel suo percorso. Per assurdo, paradossalmente, poi, proprio i compositori che da taluni sono accusati di avere imposto dogmaticamente un’unica via agli altri compositori, sono quelli la cui musica oggi, a riascoltarla, ci appare la meno dogmatica che si possa immaginare, tutta protesa com’è, invece, ad avventurarsi in territori inesplorati o a riesplorare, ma con l’orecchio di oggi, la musica del passato. Che serata gradevole ci ha fatto trascorrere l’Accademia Filarmonica Romana, commemorando i venti anni dalla morte di Luciano Berio! L’efficacia della serata stava proprio nel fatto che ci ha reso consapevoli di come, ormai, ascoltare una pagina di Berio, è come ascoltarne una di Stravinskij, o di Brahms, o di Schubert. O, addirittura, di Josquin. Più indietro ancora, di Machaut, di Vitry, di Perotinus, di Leoninus. O – perché no? – di un canto “romano” (come veniva chiamato il cantus planus che oggi chiamiamo gregoriano), un tropo, una sequenza.

 

ACCADEMIA FILARMONICA ROMANA

OMAGGIO A LUCIANO BERIO

Sala Casella, Via Flaminia 118, Roma

24 maggio 2023

 

I Concerto

Luciano Berio

Sequenza XIV

Les mots sont allés (‘Recitativo’ pour cello seul)

 

Elide Sulsenti, violoncello

 

 

II Concerto

Luciano Berio

Sequenza IV per pianoforte

Six Encores

 

Andrea Lucchesini, pianoforte

 

 

Introduzione ai due concerti di Angela Ida De Benedictis

TAG: Musica
CAT: Musica classica

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