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Musica

A ciascuno il suo Springsteen: voglia di Nebraska

di Federico Ciappini
16 Luglio 2016

Se penso a Springsteen mi vengono in mente due categorie di persone: quelli che lo amano a prescindere e ne possiedono l’intera discografia, i bootleg più rari, che sanno tutto di lui e lo considerano un semidio (non per niente lo chiamano il Boss) e quelli che , pur rispettandolo e riconoscendone le qualità, non ci trovano “la via, la verità e la vita”, ma Nebraska. In quanto appartenente alla seconda categoria voglio raccontare perché l’album in questione è riuscito a trovare una breccia anche tra chi, quando si parla di Springsteen nicchia e preferirebbe evitare l’argomento. Il Boss è il Boss, e secondo i suoi fan, è intoccabile per definizione. È come la politica o la religione: un argomento “delicato”, che può rovinare rapporti importanti se non è maneggiato con estrema cura. Però, se dal mazzo della discografia si estrae la carta giusta, può succedere l’impensabile, il miracolo.

E la carta è Nebraska, appunto, che quindi non è solo un disco, ma un approdo comune,  un luogo amico che può farci stare tutti seduti alla stessa tavola e in quanto tale va tenuto stretto stretto, perché in tempi di crisi dei valori, perdita d’identità, antipolitica e calcio malato, un disco del genere ci fa sentire uniti gli uni agli altri, springsteeniani e non, in un abbraccio virtuale che ci riconcilia con tante cose, non solo con i gusti musicali. E la ragione è presto detta: è il disco di un uomo solo che parla di uomini soli a altri milioni di uomini soli. Gente che lavora o che cerca un lavoro, che fa fatica, che aspetta di bruciarsi in un weekend perché il resto della settimana è un disastro  e la vita è brutta, in Nebraska come in Italia. Pensandoci bene, forse qui da noi quest’album è più attuale oggi di allora (era il 1982 quando lo registrò su un quattro piste a cassetta. Bei tempi!), perché all’epoca almeno c’era una rabbia giovane in giro.  Oggi è una rabbia vecchia, sdentata e cieca, incapace di intendere e di volere e che fa fare una cazzata dietro l’altra, proprio come accade a molti dei personaggi  che abitano le canzoni di questo disco, isolati tra le lamiere di un auto come tra le braccia di una donna, ad aspettare di essere salvati da un biglietto della lotteria o da qualche altro colpo di fortuna minima. E le canzoni sono scure, a volte scurissime. Spettrali. I testi sono cantati  in punta di voce, perché li si deve ascoltare di notte, in solitudine e lontani da orecchie e occhi indiscreti, che potrebbero coglierci in un momento di debolezza.

Qui Springsteen è come un Virgilio, che ci  accompagna  attraverso i gironi infernali della nostra vita mortale, evitando l’energia elettrica e fisica del rock’n’roll, per limitarsi all’accompagnamento di una chitarra e qualche intervento di armonica.  Non solo una scelta stilistica, ma un segno di rispetto per la sofferenza di chi è dentro le sue storie, nelle canzoni e nel mondo. Tutto questo disco  parla di persone in difficoltà, che spesso hanno finito la scorta di illusioni e si trovano alla resa dei conti. Storie universali, celate dietro una foto di copertina che è di per sé un capolavoro e un sipario aperto sulla scena, perché basta un’occhiata per capire cosa succederà una volta appoggiata la puntina, versato un bicchiere e abbassata la luce. Lui ci guarda da dietro una porta aperta solo a metà (quella foto dentro al disco dice molto)e ci racconta di Ralph che non trova uno straccio di lavoro e finisce sulla sedia elettrica perché a bere troppo poi si perde il senso della misura. E anche di di Joe e suo fratello Frankie, così diversi che solo il sangue li può tenere uniti. Dello struggente ricordo di un padre e di vari altri motivi per cui varrebbe la pena di vivere. Scusami, ma non ci vengo al concertone. Me ne sto qui, da solo, nel mio “Nebraska”. Però, credo di aver capito anch’io qualcosa di Springsteen.

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