Jazz Portraits. Ep.4 Ahmad Jamal

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10 Aprile 2020

Suonava con la porta di casa aperta, sperando che qualcuno potesse entrare e scoprire il suo talento. Non amava esercitarsi troppe ore al giorno. Era stato iniziato al piano a soli tre anni, quando uno zio gli aveva chiesto di dividere con lui la tastiera, ripetendo la sua parte. Era insomma un predestinato all’abbellimento e all’inessenziale, Ahmad Jamal. Lo consideravano un pianista da cocktail, abilissimo quando si trattava di strofinare la tastiera con la polvere magica cosparsa sui polpastrelli, negato in apparenza a ogni profondità. Nell’età del bebop, della velocità e dell’improvvisazione, non sembrava esserci spazio per la sua dentatura perfetta da sosia di Will Smith. Eppure un giorno Miles Davis prese da parte Red Garland e gli ordinò di suonare come lui. “Che ci trovi in quel damerino”? Lo provocarono. “Tutta la mia ispirazione viene da Ahmad Jamal, replicò secco Miles, con quella che ai più suonò solo come un’altra delle sue stramberie.

Qualcuno prenotò una cena all’Alhambra, il ristorante che Ahmad aveva aperto a Chicago coi soldi raggranellati in un tour in Nord Africa. Alla fine di ogni serata Jamal si metteva al piano e regalava ai suoi ospiti scampoli del suo talento. Aveva poco più di trent’anni e sembrava già stanco di una musica che diventava ogni giorno più intricata e scontrosa. Nel 1962, quando i grandi turnisti incidevano decine di dischi l’anno, smise del tutto di suonare, per tre lunghissimi anni. Diceva di non divertirsi più, ma è probabile che si sentisse superato dalla storia.

Agli inizi degli Anni Cinquanta con il chitarrista Ray Crawford e il bassista Eddie Calhoun (poi rimpiazzato da Richard Davis e Israel Crosby) aveva dato vita alla formula dei three strings. Nessuna sovrapposizione e niente ritmica. Si era inventato un jazz fatto solo di melodia e timbro, pieni e vuoti, in cui le pause e il silenzio contavano quanto le scale e il canto degli strumenti. Chi era abituato a concepire l’interplay come una rincorsa affannosa tra tromba e sax non comprendeva l’economia di quel suono, che in realtà era una rivoluzione poetica. Sommessa e silenziosa, che avrebbe dovuto attendere Bill Evans per poter essere divulgata agli ascoltatori più modaioli, con Kind of Blue. Molti allora preferirono girare la testa dall’altra parte, liquidando Jamal come uno squisito entertainer e nulla più. Nell’epoca frenetica dell’hard bop, Ahmad continuava in realtà a pensare musica come se dovesse condurre una big band, condensata però nella sua tastiera. Il senso della sospensione, della sorpresa e della dinamica tra le parti era la stessa, coi singoli riff che diventavano intere sezioni orchestrali: mentre tutti si ostinavano a suonare ventre a terra, lui era già volato nello spazio.

TAG: ahmad jamal, Jazz
CAT: Musica

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