La musica bisestile. Giorno 137. Francesco Guccini

:
12 Novembre 2018

Scrisse questo album perché voleva finalmente raccontare di cose che conosceva bene, e realizzò un capolavoro che oggi, a quasi 50 anni dalla sua pubblicazione, costituisce la radice forte ed appassionata della mia generazione e del suo orgoglio, della parte anarchica del nostro cuore, del modo che abbiamo ancora a riconoscerci l’un l’altro

 

RADICI

 

Nel breve periodo in cui ho abitato a Bologna, una delle prime cose che ho fatto è stato andare a Via Paolo Fabbri, sotto la casa in cui abitava Guccini. Per scoprire che, a pochi metri, c’è una traversa chiamata Via Musolesi, che fu poi il nome che Bonvi, uno dei grandi amici di Guccini, diede ad un indimenticabile personaggio delle Sturmtruppen. Ed in fondo a Via Musolesi, naturalmente, sono andato a mangiare Da Vito, come per decenni avevano fatto tutti. Ma proprio tutti tutti: Guccini, Gaber, Vecchioni, Dalla, e chi più ne ha più ne metta.

“Radici”, 1972

Ho visto coi miei occhi ciò che Guccini già scriveva in “Stanze di vita quotidiana”: “sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta, ma la gente che ci andava a bere fuori e dentro è tutta morta”. L’incanto è sparito, e Vito stesso, persona amabile ed allegra, ne parla con un pizzico di mestizia. Il suo locale è sempre pieno da scoppiare, ma si tratta di gente che non ha nulla a che fare con quell’epopea. L’incanto riguarda una generazione, a metà tra la mia e quella di mio padre, che aveva vissuto la guerra nell’infanzia, e poi era cresciuta insieme all’Italia, in una meravigliosa mescolanza di cultura contadina e film di Hollywood, di lotta politica e scoperta della poesia, dell’amore libero, della delusione intellettuale, il tutto vissuto con il calore e la velocità di un cerino in città che esplodevano in periferia, ma che al centro restavano i borghi medievali che furono, con la stessa fauna errante, la stessa capacità di essere felici senza soldi, con un bicchiere di vino, amici, chiacchiere e qualche chitarra. Una generazione che ho guardato con venerazione ed un po’ di sospetto, poi con invidia, perché avevo avuto l’impressione di essere nato troppo tardi.

Guccini e Dalla improvvisano dopo cena Da Vito, in Via Musolesi

Mi sbagliavo. Oggi sono felice degli anni che ho avuto, e dei doni ricevuti dal fatto che, primo fra la mia gente, io abbia smesso di considerare le frontiere come un limite, altre lingue e culture come straniere, il campanilismo come l’ancora di salvezza del mio senno, di quell’essere “giusti su un metro di terra”; che ho sempre disprezzato. Di quella canzone Gaber ha cantato l’anima, De André il cuore, Lolli la passione politica, ma solo Guccini la tradizione, il nostro esistere come società, il nostro posto nel mondo. Ed infatti, i dischi di Guccini sono tutti incatenati a Bologna, alla terra, alla storia personale. Se nelle prime canzoni, negli anni 60, c’era una bellissima vena di internazionalismo (“Auschwitz”, “La primavera di Praga”, “Noi non ci saremo”, “L’atomica cinese”), seguita poi da una vena fiabesca, influenzata dai poeti americani (“L’isola non trovata” etc), nel 1972 Francesco Guccini pubblica questo disco, con la sua famiglia in copertina, e comincia a raccontare di cose che conosce personalmente, e che fa suonare come se fossero ricordi di noi tutti.

Persino l’episodio della folle corsa dell’anarchico 28enne Pietro Rigosi, che rubò una locomotiva nel gennaio 1894 ed alla sua guida andò a schiantarsi a 50 all’ora contro un treno merci parcheggiato su un binario morto, e venne venerato da tutti, tanto che le FFSS si rifiutarono di denunciarlo o licenziarlo (nella canzone muore, ma nell’incidente vero perse una gamba e rimase sfigurato) – persino quella storia dimenticata, grazie a Guccini, è divenuta parte della biografia di ciascuno di noi. Quando, pochissimi anni fa, andai con Francesco Piccioni a vederlo suonare al Palalottomatica, e c’erano migliaia di ragazzini, quando giunse, finalmente, il momento per “La locomotiva”, tutti, ma proprio tutti, alzarono il pugno e gridarono con lui “trionfi la giustizia proletaria”. Per questo motivo, anche se amo un’altra mezza dozzina almeno dei suoi dischi, per presentare Guccini ho scelto “Radici”: perché questo disco rappresenta il massimo comune denominatore di almeno tre generazioni di italiani. Ciò in cui ci riconosciamo, affettivamente, e che prescinde le prese di posizione politiche, che sono esse stesse, oramai, tradizione, cultura popolare, sangue del nostro sangue.

TAG:
CAT: Musica

Nessun commento

Devi fare per commentare, è semplice e veloce.

CARICAMENTO...