La musica bisestile. Giorno 151. Manfred Mann

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19 Novembre 2018

Un ragazzo sudafricano introverso e trapiantato a Londra diventa il punto di riferimento per la musica beat internazionale, regalando a canzoni poco conosciute di artisti di altri genrei una nuova e meravigliosa veste musicale

 

MIGHTY GARVEY

 

Avevo tre anni quando loro esplosero. L’età giusta per entrambi, per piacersi, specie perché cantavano scemenze come “Do wah diddy” ed altre filastrocche senza senso che un bimbo così piccolo, pur senza parlare inglese, poteva ascoltare alla radio e mandare a memoria. In Inghilterra, loro diedero il via ad una corrente parallela dei Roaring Sixties, che piacesse anche ai più anziani e compassati, che fosse composta, dalle melodie interessanti, ma dai testi stupidi, e che ricordasse fortemente gli anni 50.

“Mighty Garvey”, 1968

Manfred Lubowitz era stato spostato dalla sua famiglia da Johannesburrg all’Inghilterra e lui, per anni, rimase abbastanza alieno al flair europeo, finché non creò il proprio avatar, Manfred Mann. Sembra che io ne abbia una cattiva opinione, ma se vi faccio una lista dei maggiori artisti di questo filone capirete che penso esattamente il contrario: Cat Stevens, The Tremeloes, Petula Clark, New Vaudeville Band, The Foundations, ed i mitici Geogie Fame e Tom Jones. Li amo tutti, indistintamente, così come si amano anche i Beatles quando cantano bambinate come “Hello Goodbye”. Ma bisogna fare attenzione, perché Manfred Mann è una spanna sopra a tutti, tant’è vero che la sua Manfred Mann’s Earth Band, tuttora, interpreta brani famosi e completamente sconosciuti in un arrangiamento rock che ha fatto scuola a tutti coloro che volevano restare legati alle tastiere dei Procol Harum e degli Animals e vederne una continua evoluzione.

La storia della musica rock è fatta così. Qualcuno prende un sound classico e vi introduce una variazione dovuta al proprio gusto, o magari ai propri limiti tecnici. Poco dopo quella variazione diventa un carattere sufficiente per dar vita ad un nuovo odo di suonare ed a nuove canzoni – ed è proprio ciò che ha fatto grande Manfred Mann, oltre ai suoi occhiali da quasi cieco (era quasi sempre nascosto dietro l’organo elettrico) ed il suo pizzo veramente caratteristico.

Il mio album preferito è questo, che è anche l’ultimo, prima di cambiare casa discografica ed abbandonare il vaudeville inglese per passare al grande rock internazionale: in “Mighty Garvey” ci sono brani indimenticabili, primo fra tutti Mighty Quinn, una canzone dimenticata di Bob Dylan, che Manfred Mann ha trasformato in una delle più belle canzoni di sempre. Da bambino fu la canzone su cui imparai a fare il coro sulla terza, e ne intuii lo sviluppo naturale. Papà aveva il 45 giri ed io lo ascoltavo continuamente, insieme a quelli dei Beatles e dei Bee Gees.

Mi commuovo ancora, ricordando le volte in cui Carsten ed io lo cantavamo dal palco, a squarciagola, con un coro imparato in or di sudore e tenacia. Da grande, invece, “Ha Ha Said the Clown” divenne lo spartiacque tra il pop e l’inizio del “progressive” inglese, come i Traffic, che da quel pop erano venuti fuori. Probabilmente, ascoltando questo disco, sentirete melodie che avete sempre amato e non ricordavate di chi mai potessero essere.

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CAT: Musica

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