La musica bisestile. Giorno 16. Tony Bennett

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13 Settembre 2018

La New York del boom economico, del sogno piccolo borghese, dei successi di Broadway, della nostalgia del Sogno Americano, degli immigrati italiani che ce l’hanno fatta senza finire a lavorare per il crimine organizzato

I LEFT MY HEART IN SAN FRANCISCO

 

Papà tornò dall’America carico di storie, di filmini, di nostalgia e di musica. Anche se era stato in California per pochi mesi, una parte di sé è rimasta lì per sempre, a Sacramento, e sono tuttora convinto che la sua vita sarebbe stata migliore se, in quei primi anni Sessanta, avesse deciso di rimanere lassù. Mamma mi ha sempre detto che lei sarebbe andata volentieri. Io ero un bambino piccolo, non ricordo nulla di cosa pensai, ma per i miei nonni un trasferimento era del tutto inimmaginabile, fecero fuoco e fiamme, e difatti non traslocammo. L’America rimase il sogno proibito di Papà fin quanto non ebbi l’età per leggere altro e costruire, pezzo per pezzo, l’odio, il disgusto ed il raccapriccio che provo oggi pensando agli Stati Uniti.

“I left my heart in San Francisco”, 1962

Un rompicoglioni come me, ho sempre pensato, laggiù non sarebbe arrivato ai vent’anni, mi avrebbero accoppato prima. Sicché ricevetti magliette bellissime (quella dei Rutgers l’ho veramente amata e continuavo a metterla quando oramai mi entrava come guanto, tuttalpiù) e partii alla scoperta di una musica che, in Italia, non ascoltava nessuno. Con orgoglio, perché imparai che moltissime delle canzoni famose in Italia, altro non fossero se non traduzioni di brani celebri inglesi ed americani. Papà metteva questa musica in due occasioni: mentre trafficava con la balsa per costruire aeromodelli, quando guidava per andare in piscina o tornarne.

Il disco che ho amato più di tutti era questo: una raccolta di canzoni in auge a Broadway nel 1961, interpretate dal crooner più famoso di allora, l’italoamericano Tony Bennett, che mostra un caleidoscopio di meravigliose ballate, dai testi semplici e banali, ma dalle orchestrazioni pompose e sontuose. Ascoltando Tony Bennett incitare a sposarsi giovani, a darsi baci canditi, a glorificare la prostituzione, sognavo di una Terra Fatata in cui fosse permesso tutto ciò che in Italia mi sembrava fosse proibito o esecrato. Gli altri crooners avevano un catalogo legato ai grandi del jazz, Tony Bennett invece scavava nei musical e nelle arie di una strada, esclusivamente americana, di mischiare musica operistica con jazz e canzonetta: la musica di Broadway, a partire da “West Side Story”. Mentre le canzoni jazz di Dean Martin, Frank Sinatra e Burt Bacharach parlano di una vita borghese, Tony Bennett è piuttosto il cantore di un sogno epico dell’America degli anni 50 e 60.

Quel sogno non è l’America, ma la mia isola che non c’è. Quella in cui vivevano musicisti straordinari come Simon & Garfunkel e si girava in moto come in Easy Rider. Questo disco, ancora oggi, è l’unica chiave che conosco per entrare nel mio personalissimo Paese delle Meraviglie, o, come lo chiamava mamma, nel mio Giardino Segreto.

 

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CAT: Musica

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