La musica bisestile. Giorno 197. Charles Lloyd

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12 Dicembre 2018

Uno dei più eclettici jazzisti della storia costruisce un disco fatto di influenze diverse, ma tutte facili da riconoscere, trattate con affetto e rispetto, ed un ritmo favoloso che rende l’album unico nel suo genere

FOREST FLOWER

 

Fin dall’inizio, quando dal Tennessee aveva traslocato a Los Angeles, Charles Lloyd era una sassofonista a metà strada. Potevi metterlo in un concerto hippie, nella ban di Chico Hamilton, in quella di Herbie Hancock, e lui è sempre lo stesso, un suono gonfio e ciò nonostante quasi timido, capace di spaziare anche nelle atmosfere della musica zigana, in quella sudamericana, sempre attaccato alle sue scale ordinate, distinte, generose.

“Forest flower”, 1967

Il suo disco più famoso, quello che vi propongo, ha un titolo preso da un famoso e saggio proverbio: fai attenzione che, guardando il bosco, tu non abbia davanti a te talmente tanta foresta da non distinguere gli alberi. Nel suo caso, Charles Lloyd vuole che si distingua ogni nota, ogni albero, addirittura ogni fiore. C’è la salsa, mischiata con il tex-mex, con un contrappunto di tipico fiato del bebop. C’è il pop melenso, quasi una fetta sugosa di Chuck Mangione, raffinata con il free jazz e le inversioni armoniche di Miles David, un’essenza e pignoleria che danno ai fiati la conduzione del ritmo, più che alla batteria. C’è la musica beat, un po’ di country, tanto Chick Corea, ma anche tanto Jeff Beck e, quindi, rock delle origini…

Per questo non mi stupisce che, nei sei anni precedenti questa bellissima registrazione, lui abbia suonato nel quartetto di Keith Jarrett. Dal 1969, dopo il grande successo ottenuto in quintetto a Monterey, ha iniziato ad accompagnare i Beach Boys, ad aiutare i Doors in sala di incisione, a sostenere il blues dei Canned Heat in concerto. E sarebbe potuto andare così ancora, indefinitamente, se non avesse incontrato Michel Petrucciani e non avesse deciso di cambiare ancora, di innamorarsi nuovamente del jazz, di tornare alla casella d’inizio del suo gioco dell’oca. Sicché oggi, ad 80 anni suonati, suona quasi esclusivamente in studio, ed arrotonda il sound delle nuove generazioni del jazz, senza prosopopea, con una serenità ed un’allegria che fanno in modo che tutti gli vogliano bene, tutti si sentano a casa, quando suonano con lui. La maggior parte del suo lavoro, ora, è con Jason Moran, e sembra che non invecchi mai.

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CAT: Musica

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