La musica bisestile. Giorno 22. Edoardo Bennato

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16 Settembre 2018

Si era fatto le ossa suonando da autostoppista in giro per l’Europa, Sandro Colombini lo trasformò nel leader di una generazione arrabbiata e sarcastica, lui si stufò di fare il Festival dell’Unità e suonare con gli archi e divenne il re del rock mediterraneo, tutto furia e e napoletanità

LA TORRE DI BABELE

 

Irruppe nelle nostre vite come un fratello discolo, che suonava canzoni irresistibili che ciascuno era (da subito) capace a rifare, e che non risparmiava nessuno: il Presidente della Repubblica, tutti i partiti, i giornali, i cantautori, sé stesso, tutto. Con “Franz é il Mio Nome” avvertì i tedeschi dell’Est che stavano sbagliando ad accettare (non la volevano comunque) la riunificazione. Con “EAA” urlò che la direzione presa dalla politica e dalla società italiana avrebbe portato all’autodistruzione, e definì il progresso umano come la ricostruzione della “Torre di Babele”. Ma questo fu dopo. All’inizio, dopo un disco rovinato dagli arrangiamenti barocchi, che pure conteneva canzoni stupende come “Non Farti Cadere le Braccia”, come “Campi Flegrei”, “Una Settimana un Giorno”, “Detto tra Noi” e soprattutto l’eterna “Rinnegato”, sulla doppia morale dei cantautori, tutto fu diverso.

“La Torre di Babele”, 1976

Nella primavera del 1974 arriva la bomba, “I buoni e i cattivi” – e vi dico che l’avevamo tutti, o su vinile o registrata su cassetta. Moltissimi avevano anche gli spartiti, perché erano facili, e le canzoni andavano gridate a squarciagola, senza far caso alla precisione. “Salviamo il salvabil”, gridava, e “Ma che bella città”. Se mai l’Italia abbia avuto un artista con un’attitudine punk, questa fu quella di quel Bennato lì, che pure, musicalmente, doveva tutto alla musica anglosassone filtrata attraverso lo specchio dei napoletani, che rovistarono e riedificarono dalle macerie le ballate imparate durante l’occupazione militare americana.La rabbia ed il sarcasmo del menestrello di strada ora possono valersi di musicisti eccezionali: Toni Esposito alle percussioni, Lucio Fabbri al violino, Roberto Ciotti, Eugenio Bennato e Francesco Bruno alle chitarre, Gigi De Rienzo al basso – il meglio, e non solo da Napoli.

Lucio Fabbri, quando era già membro stabile della PFM ed accompagnava Fabrizio De André

In quel disco nasceva il mito di Pinocchio, che sarà poi alla base del suo disco più venduto, “Burattino Senza Fili”, ma c’erano pezzi quasi punk al fulmicotone come “Arrivano i Buoni” e “Che Fortuna”. Il primo era un cazzotto sulla vicinanza tra DC e fascismo, legata ad “Uno Buono”, uno spernacchio al Presidente Giovanni Leone, costretto da uno scandalo a dimettersi nel 1971. Poi il rock contro la gentrification, “Ma Che Bella Città”, ed infine tre capolavori assoluti, la ballata “Un Giorno Credi”, e lo statement quasi zappiano “In Fila Per Tre” e “Salviamo il Salvabile”. Ecco, quelle ultime tre le cantavamo tutti, con enfasi, con rabbia, con emozione, come fossero una certezza.

Chi vi dice che il simbolo del Movimento degli anni 70 fosse “La Locomotiva” di Francesco Guccini dice il vero, ma il tappeto di note e parole del Movimento era intessuto dalle canzoni di Bennato, che divenne molto più di quanto quel buffone atteggione di Manu Chao sia mai divenuto più tardi. Bennato, con la sua 12 corde, l’armonica a bocca ed il tamburo a pedale, come Otto & Barnelli. Bennato, che aveva un successo sconfinato. Fu il primo artista a riempire (60mila persone) lo Stadio di San Siro, fu il primo italiano a suonare dal palco principale del Festival Jazz di Montreux, e negli anni più prolifici fece due dischi che uscirono a 15 giorni di di distanza l’uno dall’altro, a dimostrare che lui, dei soldi, se ne fregava.

Roberto Ciotti, il più grande chitarrista di blues italiano (1953-2013)

Purtroppo implose. Uscì con un disco su Peter Pan, in cui gridava di non voler diventare adulto, di rifiutare le responsabilità che si era assunto con i suoi testi, di voler scrivere solo canzonette. Nel frattempo il cantante della band Napoli Centrale, Pino Daniele, aveva pubblicato il suo primo disco, annegando nel miele e nel mandolinismo preberlusconiano la possibilità di una cultura napoletana che fosse di rottura, e non di acquiescenza (come aveva ammonito Bennato in “Tira a Campare”). Da allora in poi Bennato vale quanto Marco Ferradini ed Umberto Balsamo. Zero. Tant’è che, per farlo rientrare nel giro, ad Italia 90 gli fecero cantare una cretinata di stile sanremese in coppia con Gianna Nannini, che al contrario del Bennato originale, è il cantante più raccomandato e di minor valore di 70 anni di musica italiana. Anche per questo, quel disco del 1976, non solo è una pietra miliare, un segnale di rottura, un frammento di epos interstellare, ma è anche qualcosa cui restare attaccati, con affetto ed orgoglio, di quella nostra scapestrata e contraddittoria gioventù.

 

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CAT: Musica

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