La musica bisestile. Giorno 363. Arthur Brown
La testa fiammeggiante della maschera di ferro incombe sulla società inglese degli anni 60 con un flaire apparentemente arcaico e fuori moda, ma presagio del prog di Frank Zappa e compagni
THE GRAZY WORLD OF ARTHUR BROWN
Tra I 45 giri che papa aveva rimediato quando comprammo il primo giradischi, uno dei miei preferiti era “Fire”, scritto da Vincent Crane per Arthur Brown. Mi sembrava una canzone fighissima, una cosa strana e completamente diversa da tutto ciò che avevo ascoltato fino ad allora. Brown saliva sul palco in una tunica bianca, con una maschera che aveva un anello sopra la testa, e questo anello bruciava. Il suo volto era coperto da tatuaggi di guerra di qualche tribù centramericana, una cosa a metà strada tra il ridicolo e lo spaventoso.
Ma aveva una voce che raggiungeva toni altissimi, ed era perfetto per quel tipo di apparizione – tant’è vero che, dopo la breve fama raggiunta con “Fire”, finì col lavorare per Frank Zappa, dove venne sostituito, qualche anno dopo, da Flo & Eddie, i due cantanti straordinari del Turtles. Ma Arthur Brown ha continuato, finché ha avuto il fisico, a cercare di spaventare il suo pubblico, ed è apparso, con le sue canzoni, in diversi film dell’orrore di serie C. Come corista ha lavorato tanto, con The Who, Jimi Hendrix, Hawkwind, Alan Parsons Project e Klaus Schulze – tutta gente famosa, che aveva bisogno di cori con toni estremamente alti.
Arthur, brillante studente di letteratura e filosofia all’Università Statale di Londra, era un attore di teatro sperimentale e, nel 1965, a 23 anni, era finito a Parigi, dove aveva conosciuto Roger Vadim, che lo aveva sentito strimpellare un paio di canzoni in una serata in spiaggia con degli amici e gli aveva comprato due brani per un film scritto su un celebre scritto di Emile Zola, “La cuccagna”. Con cotanta raccomandazione nella saccoccia, Arthur, tornato a Londra, aveva trovato lavoro nel coro pop chiamato “The Foundations”, subito prima che questo spiccasse il volo con canzonette tipo “Freedom come. Freedom go”. “Build me up buttercup” e “Bay now that I’ve found you”.
Dopo poche settimane e due concerti, Brown se ne era andato schifato: “Volevo stonare per scalfire quelle facce da bravi bambini, sordidi topi assetati di soldi, disposti a fare le scimmie pur di elemosinare una serata. Ho pensato: in questo mondo, io devo fare paura e far ridere, altrimenti sarò nulla, uno dei milioni di nulla passati per il tritacarne con una canzoncina al collo che sarà la mia vergogna finché vivrò”. Molto meglio lavorare con Vincent Crane, che aveva ambizioni e tecnica, e sognava il glam che sarebbe arrivato solo qualche anno dopo, e che con Arthur Brown aprì la porta a tanti artisti che poi, negli anni, lo hanno adorato o copiato, Alice Cooper, Captain Beefheart ed Iggy Pop sopra a tutti.
Nel frattempo ha continuato a lavorare a teatro. Pete Townshend lo ha chiamato a recitare il prete demoniaco in “Tommy”, ed ha continuato a fare il corista fino a qualche anno fa, quando, verso i 65 anni, la voce gli si è abbassata. L’ultima band con cui ha lavorato sono stati i Kula Shaker, una decina d’anni fa. Forse voi non l’avevate mai sentito nominare, ma nel mondo della musica è universalmente considerato un grandissimo, una pietra miliare, uno di cui Freddie Mercury aveva il poster affisso in camera, tra i grandi della sua gioventù.
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