La musica bisestile. Giorno 62. Joan Baez

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6 Ottobre 2018

ONE DAY AT A TIME

 

Su certe cose non riesco a fare ironia. Lei lo ha certamente amato alla follia, lui non si sa, è uno che si vede da Marte che sia completamente anaffettivo, ed i documentari che ho visto su di lui me lo hanno reso ancora più antipatico. Quando divennero una coppia, lui non era nessuno, solo un ragazzino che cercava di farsi accettare nel club dei grandi del Greenwich Village, uno che suonava male la chitarra, cantava peggio, e scriveva testi lunghissimi e complicati, senza gli slogan che amavano Pete Seeger e quelli come lui, i fedeli di Woody Guthrie. Il suo primo disco aveva venduto 5mila copie. Lei invece era la grande voce femminile della rivolta studentesca, un’icona, bellissima ed inarrivabile. Joan Baez.

“One day at a time”, 1970

Per lui, per Bob Dylan, lei si è apparentemente cancellata. Lo seguiva nei tour come la squinzia di un calciatore, lui si credeva già Gesù. Ma lei lo ha amato alla follia, e lui, dopo qualche anno, l’ha piantata in asso, e le canzoni che ha scritto su di lei sono famose, ma tutt’altro che gentili. Essere una cantante di successo non vuol dire avere una vita fortunata, non per forza. Sua sorella, Mimì (che Joan adora), che a 17 anni era scappata con il cantante messicano Richard Fariña, tornò a casa distrutta, lui era morto cadendo dalla moto. Mimì rimase per anni in profonda depressione, poi incontrò un produttore folle e travolgente, Milan Melvin, e tornò alla vita. Per tre anni da pazzi, al termine dei quali lui la mollò come in un brutto film, scappando da un motel nel deserto in cui avevano passato la notte. Mimì ha passato la vita a cantare e raccogliere fondi per i malati terminali, ed è poi morta di cancro.Ma quando Joan registrò questo disco meraviglioso, Milan era ancora il cavaliere pazzo, il “Sweet Sir Galahad” che aveva salvato Mimi dalla tristezza, e per lui Joan scrisse una delle sue canzoni più stupende.

Il matrimonio tra Mimi Beaz e Milan Melvin, il 7 settembre del 1968

Joan invece sposa David Harris, uno che si era rifiutato di andare a combattere in Vietnam ed era finito in prigione. Hmmm. Secondo me fu, in parte un’operazione di marketing commerciale. Ed infatti, quando lui uscì di galera, la cosa finì in un battibaleno. Lui si mise a scrivere libri sul football americano e tentò inutilmente una carriera federale nel Partito Democratico, lei tornò a suonare. Ma a quel punto la stella di Joan Baez sta tramontando, come tutta la musica folk tradizionale, soppiantata dalla West Coast e dal country rock. Nel 1974, Dylan, di notte, telefona a Joan Baez. In una delle sue crisi di infantilismo, la riempie di melensaggini piagnucolose. Lei riattacca e scrive una canzone terribile e stupenda, “Diamond and Rust”, diamante e ruggine, che secondo Dylan sarebbe la sostanza dei ricordi. Lei ammette di amarlo ancora, ma che sia inutile: “Siamo come maledetti, ecco che torna il tuo fantasma, ma non è strano, c’è solo la luna piena (…). Avevi degli occhi belli come rubini e dicevi che le mie canzoni fanno schifo (…) e mi dici che non hai nostalgia, ma qualcosa d’altro, sei sempre stato bravo con le parole ed a parlare senza mai essere chiaro (…) ma se sei qui per portarmi diamanti e ruggine, ti prego, il prezzo l’ho già pagato”.

Bob Dylan e Joan Baez ai tempi della loro storia d’amore

Quando ascolto questa canzone, commosso, penso agli amori che abbiamo solo sognato, proiettato, per gente che non aveva niente da dare – ed a tutte le volte che noi siamo stati lo stesso per qualcun altro. Perché siamo talmente occupati a cercare di fingere di amare noi stessi, che creiamo un’immagine dell’amore e la appiccichiamo addosso (preferibilmente) a persone senza carattere, deboli, che si lasciano manipolare facilmente. E restiamo soli, come meritiamo, a spalare nella miniera infinita in cui diamanti e ruggine diventano la stessa cosa: lacrime di sciocca autocommiserazione, o gocce sudore di vita, la nostra, da salvare.

Ma torniamo al disco, che è completamente diverso da tutti gli altri album registrati dalla signora Baez. Niente folk etnico, niente sdrucciolii a pochi centimetri dalla musica popolaresca più consueta e patetica, ma invece una ricerca attenta e stupefacente di armonie ed accordi diversi dal solito, una rielaborazione di alcuni brani del rock più famoso ed intelligente, dai Rolling Stones ad Elvis Presley, da Willie Nelson ai Byrds. Ma ciò che amo più di ogni altra cosa è la band che accompagna Joan Baez: gli Area Code 615 (il codice telefonico di Nashville), un gruppo di musicisti che accompagnava Elvis e poi continuò nei migliori dischi di Bob Dylan e Joan Baez, impreziosito dall’armonicista Charlie McCoy.

La band Area Code 615 (che è il prefisso telefonico di Nashville)

Il disco, che uscì nel 1970, divenne il punto di riferimento per la scena country rock, con una serie di concerti che portarono, un paio di anni dopo, alla pubblicazione della pietra miliare “Will the Circle be Unbroken”, dei Nitty Gritty Dirt Band, di cui ho già scritto nei mesi passati. Tra le canzoni indimenticabili c’è la già citata “Sweet Sir Galahad”, e poi la canzone per il marito David, in prigione perché si era rifiutato di andare in Vietnam. Il disco è gonfio di pathos, pignoleria, attenzione, ed indica una strada che Joan Baez avrebbe potuto intraprendere per divenire un’icona alla pari di Joni Mitchell – e poi decise di non farlo, purtroppo. Ancora oggi, quando ascolto queste canzoni, credo che il futuro esista, e che il passato abbia avuto un senso, e non fosse soltanto dolore. Ho aggiunto “Diamonds and Rust”, perché, se non la conoscete, non avete vissuto in modo completo e non sapete nulla dell’amore.

 

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CAT: Musica

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