La musica bisestile. Giorno 87. Gilbert O’Sullivan
BACK TO FRONT
Alla radio, qualcuno mi disse che “Era bella” dei Profeti fosse in realtà la traduzione in italiana di una canzone di Gilbert O’Sullivan, “Nothing rhymed”. La canzone dei Profeti era una cagata, l’originale meglio, anche se la voce lamentosa mi dava fastidio. E vabbé. Poi arrivò l’estate del 1972, e sul jukebox al mare c’erano tre canzoni di questo Gilbert O’Sullivan: faccia da perdente, voce da perduto, pianoforte da inglese di campagna. In qualche modo, lui divenne la colonna sonora di quell’estate piena di mare, di pallavolo in spiaggia, di interminabili corse in bici, di prove di teatro, di conquista dei primi refoli di consapevolezza e bisogno di autostima.
Tutto era nuovo ed emozionante. Ricordo una discussione sui Led Zeppelin con (credo) Francesco Morabito. Io, ingenuamente, mi chiedevo come dovessero essere gli spartiti di musica suonata ad un ritmo così indiavolato, Francesco (mi scuso se non era lui) mi prendeva bonariamente in giro, ma del resto non gli piaceva il genere, quelle canzoni non le sapeva suonare, sicché io iniziai a credere che la differenza vera tra la musica italiana e quella anglosassone fosse che quella italiana fosse per principianti e che gli inglesi, invece, sapessero suonare cose dell’altro mondo.
Ancora non conoscevo PFM, Area, Banco ed Orme. Gilbert O’Sullivan era nel mezzo, era come una sorta di Giorgio Gaber col naso sbagliato, o, meglio, un Antonello Venditti “buono” che suonava per la nascita della sua bambina e per la sua convinzione che sarebbe rimasto solo per sempre. Due buoni motivi per adorarlo. In realtà si tratta dell’ennesimo artista inglese, come Elton John, Al Stewart e chissà quanti altri, che hanno nelle dita e nel cuore una serie immensa di melodie tradizionali, di ballate malinconiche o allegre, buone o cattive, sdolcinate o clownesche, che sono la vera ragione per la quale, con la nascita del pop e del rock, gli inglesi abbiano sempre avuto gli artisti migliori, le linee più avanzate.
Gilbert O’Sullivan è l’epicentro di questa tradizione, visto che sceglie come soprannome la sintesi dei nomi di alcuni dei più conosciuti compositori di operetta di fine secolo 19° e del vaudeville della prima metà del 20° secolo: “Prometto che scalerò la torre e mi getterò di sotto nel tentativo di far sapere a chiunque cosa voglia dire essere in frantumi – ancora solo, naturalmente. Pensare che solo ieri ero allegro, luminoso e gioioso, perché non capivo il ruolo che mi sarebbe toccato, che sarei saltato giù perché la realtà ha vinto, mi ha tagliato in piccoli pezzi – ancora una volta da solo, naturalmente”. Che allegria…
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