La musica bisestile. Giorno 143. Ramones
Erano qui tre anni prima dell’esistenza dei Sex Pistols. Erano sempre strafatti di alcool o chissà cos’altro, suonavano solo accordi in maggiore, erano la band più monocorde mai esistita. Ed erano straordinari
IT’S ALIVE
Non li avevamo presi sul serio. No, davvero. Poca tecnica, basso sovrapposto alla chitarra monocorde, batteria in sincronia, niente assoli, nessun svolazzo tecnico, album da studio noiosi, e nulla del messaggio politico dei Clash o di quello iconoclasta dei Sex Pistols. Non li avevamo presi sul serio, perché erano una band dei Queens, da dove non era mai uscito nulla di buono, guidata da un chitarrista bruttissimo ed ungherese, Tamás Erdélyi, che si faceva chiamare Tommy Ramone. Ciao 2001 li descriveva come una truppa di ubriaconi sempre semisvenuti, fans di squadre di hockey su ghiaccio di cui, a noi, non poteva fregare di meno.
Eppure, come i Grateful Dead, non facevano che suonare in pubblico, a volte davanti ad un pubblico immenso. Tra il 1974 ed il 1996, quando hanno iniziato a morire di alcool, droga e chissà cos’altro, avevano suonato quasi 2300 concerti, oltre due a settimana di media. Quindi dovevano esserci momenti in cui, ubriachi o no, dovevano reggersi in piedi. In ogni caso si trattava di qualcosa talmente lontano da ciascuno di noi… L’America ci aveva uinondato di mode culturali, ma non di questa, che rimaneva per noi estranea e marginale, incomprensibile – proprio come l’hockey su ghiaccio ed il baseball.
Renato Nicolini ci portò l’Estate Romana, e con essa le indimenticabili notti di cinema al Circo Massimo. Ci andavo, quasi tutte le sere, con Adriana, la mia prima moglie, e restavamo fino alla fine, abbracciati d’amore e di freddo, due cicale di un’estate che, purtroppo, ebbe abbastanza forza per tenerci insieme per 13 anni, ma non abbastanza per imparare un modo per parlarsi e capirsi davvero. Se penso a quelle notte mi intenerisco, ma per il resto fu un incubo orribile per entrambi. Sia come sia, imparammo ad odiare “Bette Davis’ Eyes” di Kim Carnes, perché era la colonna sonora della pubblicità della SevenUp, e veniva proiettata ad ogni pausa, almeno due volte. Ed in una notte, che era dedicata ai film musicali, subito dopo “Rocky Horror Picture Show”, proiettarono il concerto di Capodanno 1977 dei Ramones.
Da allora non sono diventato un loro fan, ma ho amato il doppio disco che ne venne fuori, e mi immaginai di capire perché esistessero: perché erano e rappresentavano l’immondizia intellettuale, economica e culturale di quartieri abbandonati dall’opulenza del mito americano, in cui un sordido sopravvivere lascia (e le cose da allora sono di molto peggiorate) le città diventare formicai di solitudini ed alienazioni inguaribili. In quel disastro, da cui nascono anche sogni disperati sulle città del dopo-ecatombe, che sono divenuti film importanti (allora c’era “Streets of Fire”, con la stupenda Diane Lane), sempre più incubi del militarismo folle americano (con un’eccezione, il bellissimo “The Postman” del 1997), i Ramones sono a metà tra la trasposizione dell’incubo (come i Devo, ma in un’altra direzione) ed il soggiacere alla sua violenza, che si può assecondare passivamente, perché in fondo tutto, ma proprio tutto, scorre. E quel disco, poi osannato dalla critica (la qualità del suono è straordinaria), resta un monito ed una pietra miliare.
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